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Un altro assaggio di Isole, romanzo work in progress. Questa è la prima parte del diciassettesimo capitolo.
A giorni, la seconda parte. Buona lettura.
Diciassette
Assunta
L’appartamento all’ultimo piano nella palazzina di via Cevoli rimase sfitto dal giugno ’79 al febbraio dell’80. Il signor Lorenzo, che vi aveva abitato per più di quarant’anni, se ne andò nel sonno in una notte di inizio estate. Assunta fu avvertita della sua morte dai figli dell’anziano signore, che lo avevano trovato disteso sul letto, sereno come un angelo, le avevano detto. Mentre riponeva le chiavi dell’appartamento nel cassetto della scrivania, le era venuto in mente che avrebbe potuto trasferircisi lei. Per un attimo si immaginò di arredare le due piccole stanze, mobili nuovi, senza ricordi. Ma fu solo un attimo, un’euforia subito scacciata da altri pensieri.
Trovare un altro inquilino era difficile: il paese non offriva nulla, né posti di lavoro, né bellezza. Chi poteva decidere di venire a vivere lì? Mise ugualmente un annuncio su un quotidiano, senza avere risposta per mesi. Poi, in un giorno di metà febbraio dell’anno successivo, squillò il telefono, in casa Dall’Olmo: un uomo dalla voce profonda chiese se l’appartamento cui il vecchio annuncio faceva riferimento fosse ancora libero.
Assunta gli diede appuntamento per il pomeriggio del giorno stesso, davanti all’unico bar del paese. Mentre lo stava raggiungendo, una pioggia inaspettata aveva cominciato a cadere con forza e in pochi minuti Assunta si era ritrovata il cappotto bagnato e i capelli sgocciolanti d’acqua, come se fosse stata sotto una doccia.
Strizzando gli occhi si era messa a correre ed era arrivata davanti al bar senza quasi accorgersene. Una mano l’aveva presa per un braccio e l’aveva sospinta all’interno del locale.
“Mi sembra una micia caduta nel Tevere” aveva detto una voce, e lei la riconobbe per quella della telefonata. “ Spero di non essermi sbagliato” aveva aggiunto l’uomo” “Lei è Assunta Dall’Olmo, vero?”.
Assunta lo aveva guardato e la risposta le era rimasta in gola: quell’uomo le ricordava suo padre. Aveva la stessa corporatura con le spalle lievemente curve, e gli occhi, poi: non tanto il colore, di un castano più chiaro di quello del padre, ma l’espressione, soprattutto quella delle ultime settimane, prima che lui la lasciasse per sempre. La stessa malinconia e dolcezza, la stessa luce opaca, e la tristezza, in fondo.
Lui le teneva ancora la mano stretta sul braccio e Assunta abbassò lo sguardo e si mise a fissarla. L’uomo la tolse e disse: “Mi scusi.”
“Sì, sono io, sono Assunta Dall’Olmo”, disse lei, cercando di tenere ferma la voce. “E mi scusi lei… Questa pioggia…”
“ Michele Furlan” lui disse, “suo futuro inquilino, spero. Ci vuole qualcosa di caldo, adesso. Un the, un cappuccino?”
Avrebbe voluto rispondere: niente, grazie. E invece da lì a un attimo era seduta al tavolino vicino al biliardo, e nell’attesa che lui tornasse con le ordinazioni, guardava le bocce colorate che scivolavano sul tappeto verde, come faceva da piccola, quando suo padre la portava al bar per una cioccolata in tazza, e si sedevano proprio lì, dove stava ora…
Improvvisamente si sentì a disagio, come se stesse scivolando lungo una rampa senza appigli. Sentì l’impulso di alzarsi e andarsene, e al diavolo l’appartamento sfitto.
Lui tornò e appoggiò sul tavolo le due consumazioni. Assunta bevve il the in fretta, scottandosi il palato. Poi, alzandosi, disse: “Andiamo, si sta facendo tardi”. Tardi per cosa?, pensò subito dopo. Lui stava ancora mescolando lo zucchero nella tazzina del caffé.
L’appartamento non lo guardò quasi. Va be’ che, piccolo com’era, non c’era molto da guardare. Le disse che, se a lei andava bene, a lui non interessava la registrazione del contratto. Facciamo solo una scrittura privata fra di noi, aggiunse. Devo chiederlo a mia madre, disse lei. La proprietaria è mia madre. Lui si affacciò alla finestra della cucina, si sporse un poco, a guardare intorno. Ad Assunta tremò il cuore. Poi si disse: smettila.
“Lo prendo.” E lui le strinse la mano e le sorrise. Il sorriso no, non era quello di suo padre. A differenza dello sguardo, aveva un che di spavaldo, che la confuse.
“Non lo affitto più”, si sentì dire. Ma in realtà gli aveva detto:
“Va bene, ci può venire a stare anche subito”.
“Fra due giorni, penso. Prima devo cercare dei mobili. Magari usati, anzi senz’altro, usati. E per le carte e le firme ci possiamo vedere domani l’altro mattina. Alle dieci, se le va bene. Colazione al bar, ci sta?”
Le telefonò la mattina dopo.
“Piove ancora, ha visto? Senta, che ne dice di darmi una mano per i mobili. Io non saprei dove andare, magari lei conosce qualche posto che vende roba di seconda mano… “
Lei disse che non conosceva nessun posto che vendesse roba di seconda mano, che aveva da fare a casa, che pioveva troppo forte per andare in giro. Mi dispiace, gli disse. Dovrà fare da solo.
“Spiace anche a me” disse lui. “Era anche per rivederla, per rivederla prima di domani.”
Mentre lo ascoltava, Assunta pensò a quel suo sguardo: malinconico, dolce, triste. E ora anche deluso, probabilmente.
“Va bene. Vedrò di darle una mano. Ci vediamo alle tre, davanti alla sua casa nuova. A dopo, Michele”.
Riattaccò, e pensò che lo aveva chiamato per nome. Michele era un bel nome, davvero.
Se sua madre si faceva domande non lo dava a vedere. Chissà cosa pensa, si chiedeva Assunta, del fatto che sto tanto tempo fuori casa?
Ma l’appartamento di via Cevoli era diventato una meta quotidiana, per Assunta. Il tempo passava veloce, lì, in quelle due stanze. E lei non si riconosceva più. Stava bene per la prima volta da quando suo padre se ne era andato. Per la prima volta, da quando era nata, stava veramente bene con una persona che non fosse suo padre. Forse perché con questa persona realizzava delle cose, così come aveva fatto insieme a suo padre con i cartoncini, i semi e la colla.
Insieme, avevano imbiancato l’appartamento, e anche se nessuno dei due era un esperto, il lavoro era venuto quasi perfetto. Insieme, avevano comprato l’arredamento e, quando il robivecchi glielo aveva consegnato, si erano divertiti a sistemarlo, cambiando disposizione ai pochi mobili ogni cinque minuti. Insieme, cucito una sopracoperta per il letto di ferro, singolo, stretto e lungo e indubbiamente non comodo, per dormirci. Dal rigattiere avevano trovato diversi stracci colorati, li avevano uniti fra loro con puntacci lunghi e sbilenchi, ma quando Assunta aveva steso la coperta patchwork sul letto, aveva detto: come è vivace! Era stata lì ad osservare il letto che non sembrava più neppure scomodo, così vestito, e aveva immaginato che fosse il suo letto, e che sotto a quella coperta avrebbe potuto fare sogni di allegria.
Assunta, a un mese dalla frequentazione del suo inquilino, aveva smesso anche di gettare cose dalle finestre.
“Troppo in fretta” pensava prima di addormentarsi. “ Praticamente non so neppure chi sia, mi ricorda papà, è vero, ma è un buon motivo per abbassare la guardia? Troppo in fretta…” ripeteva e scivolava nel sonno e sognava che Michele era suo fratello e che Nadia non era mai nata
e che abitavano tutti –lei, suo padre e Michele- nella casa di via Cevoli
che aveva le pareti color oro e il soffitto azzurro e i quadri erano fatti con i semi più belli e le tendine alle finestre erano tutte un ricamo.
E ancora “Troppo in fretta”, si diceva al risveglio. E anche: “Fratello?” si chiedeva. “Sei sicura?”
Che fosse amore, amore non fraterno, lo capì solo più tardi,
Non parlavano molto di sé, né l’uno né l’altra. Del passato di Michele, Assunta sapeva solo che era nato al nord- un paese non ben identificato dalle parti delle Dolomiti-, che i suoi erano emigrati in Svizzera, che lui aveva lasciato la facoltà di sociologia, al secondo anno, per mettersi a viaggiare per l’Italia. Quando lei gli chiese: “E ora? Perché questo paese dove non c’è nulla?” Michele rispose in maniera vaga: disse che avrebbe presto avuto un lavoro a Roma, ma la capitale non gli piaceva per abitarci. Troppi resti del passato, disse. Meglio questo paese, ad affascinarmi è proprio il suo squallore. Non ha pretese, non vuole essere ammirato, è anonimo.
Assunta, a Michele, aveva raccontato, della sua storia, della sua famiglia, solo ciò che era visibile. Il resto, la storia sotterranea, continuava a raccontarla solo a se stessa.
Per lo più, quindi, stavano in silenzio, mentre lavoravano. Da fare c’era sempre qualcosa. Ora si erano messi in testa di costruire una libreria con vecchie assi trovate vicino al cassonetto dell’immondizia. E anche di fare la marmellata di arance.
Ogni tanto sollevano la testa da quello che stavano facendo e si guardavano. E i visi si illuminavano in un sorriso.
No, non si riconosceva più, Assunta.
Una canzone di quell’anno:
Ivan Graziani: Firenze
beh, ci sei riuscita! Lo voglio LEGGERE!!!!!
ecco, e aspetterò di averlo sotto tra le mani..
'notte
cri
Vai avanti, ragazza!
Mirella
Grazie del passaggio!
ciao
Cri: Mica l’ho finito, cara Cri! Magari…
Però ti prometto che quando l’avrò terminato sarai fra le prime/i primi a leggerlo.
Baci
Milvia
Mirella: Con i miei ritmi… Lo sai che son pigra…
Un abbraccio forte forte
Milvia
NevePioggia: é stato un piacere conoscerti!
Ciao!
Milvia
buon fine settimana cara e brava Milvia!
Margaret: anche a te, Margaret cara!
Milvia
Comunicato del 21 novembre 2010[..] Scusate, se ve lo chiedo, ma non provate, oltre la rabbia, anche la vergogna di avere un presidente del consiglio così? Considerate che lui dovrebbe essere l’esempio per gli italiani e anche lo è, per quelli mignottari, furbi da q [..]
Con il tuo ritmo incessante, mozzafiato, fai ben presto dimenticare lo strumento narrativo, cioè le parole e le frasi, e ci fai entrare sulla scena proprio come in un teatro, col fiato sospeso e l'attenzione catturata dai personaggi, dagli oggetti, e dalle loro vicende.
Sta nascendo, ne sono convinto, un'ottima opera, intensa e partecipata, palpitante, vissuta.
Un saluto.
Franz
Franz: Vorrei tanto che tu avessi ragione, caro Franz… Per il momento ti ringrazio, e, se vorrai, sarai fra i primi a poter leggere il manoscritto, una volta ultimato (non faccio previsioni…).
Milvia