Vecchio raccontino

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Buona lettura? Boh?… Comunque buona domenica!

Solo per te

La prima volta che si era innamorata aveva cinque anni. Lui si chiamava Adriano, Adriano  Minezzi,  aveva sei anni e tutti gli inquilini del caseggiato popolare dove il bambino viveva con la madre poco più che adolescente, lo consideravano brutto, sporco e cattivo. Giudizio che lei,  arrivata ai cinque anni e mezzo, aveva  pienamente condiviso. Perché la prima volta che le si era spezzato il cuore era stato lui, quell’Adriano Minezzi-suoprimoamore, a spezzarglielo.  Le aveva detto, proprio nel mezzo del polveroso cortile della grande  casa popolare: “Ma perché mi vieni sempre dietro? A me, te, mi fai fare i gattini.”  
Che lei subito non aveva capito cosa volesse dire. Poi aveva chiesto alla Claudia, che facendo la terza sapeva tutto, e la Claudia le aveva detto: “Mi fai vomitare, vuol dire.”
E Anna aveva sentito un click, lì, proprio dove suo nonno le aveva detto che c’era il cuore. Aveva provato un dolore ancora sconosciuto, molto più forte di quello che aveva sentito quando la mamma le aveva fatto la puntura per la tonsillite.
Crescendo, di click ne aveva sentiti molti altri. Sempre più forti, sempre meno sopportabili.
Ripensandoci ora, mentre staccava una delle calamite che ricoprivano lo sportello del frigo, si chiese come avesse fatto a sopravvivere.  “Perché sapevo che saresti tornato” disse a bassa voce. “Solo per te, sono sopravvissuta”.

La lettera era arrivata in redazione sette mesi prima. Su un angolo della  busta c’era scritto personale. Di lettere così, con busta timbro francobollo odore di carta e colla, ne arrivavano sempre meno. Tutti, ormai, si affidavano alla posta elettronica. Anche a “Solo per te”, la rubrica che Anna teneva sulla rivista “Le nostre vite” arrivano esclusivamente mail.
La rubrica era stata una sua idea.  
“Potremmo pubblicare lettere d’amore scritte da me agli uomini che ne faranno richiesta”, aveva detto al direttore, “Che ne dici?”.  Lui le aveva risposto: “Va bene, fai tu. “
Si fidava di lei. Quella donna aveva intùito per quello che poteva piacere alla gente. L’aveva assunta otto anni prima, e mai che avesse preso un abbaglio.
Così la rubrica  “Solo per te”, che a molti sarebbe sembrata una cosa stupida e senza possibilità di successo, era arrivata al suo secondo anno di vita.  Gli uomini mandavano una mail, raccontavano qualcosa della loro vita, della loro solitudine, delle loro ansie, e chiedevano che Anna scrivesse loro una lettera d’amore. Strani gli uomini, vero? Ogni settimana il prescelto  poteva leggere sulla rivista la lettera a lui destinata. “ Mario, amore mio grande”, “Bruno, mio adorato” ecc.ecc.  Più di cento lettere, una diversa dall’altra, in cui Anna, ora appassionata, ora divertente, ora timida, ora esplicitamente erotica, poteva far uscire tutte le parole che gli uomini incontrati durante i quarant’anni della sua vita avevano sempre rifiutato. Anna l’abbandonata si era presa una rivincita. Quegli uomini continuavano a scriverle mail anche dopo la pubblicazione della lettera, ma lei non rispondeva mai a nessuno.
Poi era arrivata quella lettera di carta, con il suo nome scritto al centro della busta e quel personale, lì nell’angolo. E Anna aveva ricominciato a sognare.

Prese la biro e scrisse sul post-it arancione: “2 aprile ore 12: presa la medicina”. Poi lo appoggiò allo sportello del frigorifero e lo fermò con il piccolo magnete. Come la chiamavano i medici la sua patologia? Si era scritta anche quel termine, teneva il foglietto sulla scrivania. Amnesia anterograda da trauma cranico, c’era scritto. Che in pratica significava che lei faceva una cosa, come mangiare o fare la doccia  e cinque minuti dopo non si ricordava un accidente. E tutto per quella caduta del cazzo sul pavimento bagnato della cucina. La rabbia le faceva compagnia da due mesi, che due mesi erano passati da quella caduta. Quando era tornata a casa dall’ospedale le era sembrato di scendere all’inferno. Riusciva a ricordarsi come era vestita il giorno del suo diciottesimo compleanno e non sapeva dire se avesse o no mangiato due ore prima. Parlava al telefono e cinque minuti dopo aver terminato la conversazione si chiedeva: ma mi ha chiamato qualcuno, prima?  Ecco il perché di tutti quei biglietti colorati che ricoprivano lo sportello del frigorifero. Dopo tre giorni in cui le era sembrato di impazzire, aveva escogitato quel sistema: scrivere immediatamente su un foglietto ben visibile l’azione compiuta,  gli avvenimenti che scandivano la sua giornata, gli appuntamenti. Tutte quelle cose che il suo cervello non riusciva più a memorizzare. Data, ora, azione o evento. Una pratica che richiedeva estrema attenzione: mettere, togliere, sostituire.
Rabbia e stanchezza: questi i suoi compagni degli ultimi due mesi.  E anche se i medici dicevano che prima o poi tutto sarebbe tornato normale, che l’emorragia nell’ipotalamo si stava riassorbendo, lei era veramente esausta e incazzata. E si sentiva fragile, ogni avvenimento non previsto la gettava in uno stato di prostrazione.
Per fortuna, però, da sette mesi c’era Adriano. Non lì, non con lei, non ancora, ma era in lei. C’era con le mail che le inviava da San Francisco, con le telefonate che le faceva  quasi ogni sera. Adriano, proprio quello della casa popolare, quell’Adriano Minezzi-suoprimoamore , non più brutto, né  sporco, né  cattivo.
Che aveva letto per caso la sua rubrica, aveva notato la firma e si era ricordato improvvisamente di quella bambina magra magra che per mesi lo aveva seguito come un’ombra. Che fosse lei? Le aveva inviato una lettera alla redazione del giornale. Personale, aveva scritto sulla busta. Le aveva scritto per curiosità, per noia, forse. Le aveva scritto per  nostalgia di quel cortile polveroso di una città che aveva lasciato tanti anni prima.  
Quando lei gli rispose, fu contento. Fu come se un pezzetto della sua  infanzia fosse arrivato sulla sua scrivania di docente universitario rispettato e temuto. Le riscrisse, raccontandole del coraggio della madre che aveva deciso di lasciare l’Italia con lui, ancora piccolo, per raggiungere dei lontani parenti. Le scrisse anche dei suoi studi, del dottorato a Berkley,  dei figli non nati, del divorzio. Di come ora fosse solo e stanco.
Certo che ne hai fatta, di strada… gli rispose lei.  E gli raccontò della città dove era andata ad abitare, della laurea in scienze della comunicazione, dei suoi che erano morti. E degli uomini, degli abbandoni, di quel click ripetuto. Gli scrisse dei due tentativi di suicidio. Gli disse che il lavoro l’aveva aiutata a superare il dolore. E che uomini, poi, non ce n’erano più stati, se non quelli soli e tanto disperati da rivolgersi a un’estranea come lei per  avere parole d’amore.
Insieme decisero che sarebbe stato più comodo comunicare via mail. E lui cominciò a mandarle una mail ogni sera: l’oggetto era “solo per te”. Le parole stavano diventando quelle di un innamorato.  
Fu al telefono che lui le disse che l’amava. Lei si mise a ridere, poi gli occhi le si riempirono di lacrime. “Forse io di amarti non ho mai smesso,” gli rispose.
Dell’incidente glielo scrisse in un messaggio che gli inviò sul cellulare. Lui telefonò in ospedale per parlare con i medici. Non mi posso muovere, in questo momento, le scrisse. È periodo di esami. Ma appena mi libero vengo da te, le scrisse. Solo per te.

Sullo sportello del frigo c’era un biglietto azzurro, più grande degli altri. La scritta era rossa: “Adriano arriva il 2 aprile, nel pomeriggio. Solo per me!!!”
Anna accarezzò il foglietto. Poche ore ancora e ti rivedrò, Adriano mio amore. Cantarellando entrò nello studio. Accese il computer per guardare la posta. Voleva rileggere la mail che Adriano le aveva inviato la sera prima. Le sembrava di ricordare che le avesse scritto una cosa importante. Ma  il server di posta la avvertì di essere momentaneamente in riparazione. Riprova più tardi, c’era scritto.
Anna accese il lettore di cd e si lasciò trasportare dalla musica e dalle parole di Fabrizio De André: Amore che vieni, amore che vai… Non le rimaneva altro che aspettare il suo  amore ritrovato.

Aveva visto il rosso del tramonto infiammare i vetri delle finestre, aveva sentito il rumore del traffico aumentare, nell’ora del rientro a casa dei lavoratori, aveva telefonato in aeroporto, per avere notizie sul volo. Atterrato puntualmente, le avevano risposto. Aveva fatto il numero del cellulare di Adriano almeno cento volte, fino a scaricare la batteria del suo telefonino. L’utente non è reperibile, era stata sempre la risposta. Il server di posta era ancora in riparazione. E per almeno cento volte era andata in cucina a leggere il biglietto azzurro. Quando il buio aveva avvolto la stanza non aveva acceso la luce. Le strade, a mano a mano che le ore passavano, erano diventate silenziose.  Buio e silenzio.
Anna: A come Abbandono.  
Stava albeggiando quando si alzò dal divano e si trascinò in bagno. La confezione delle pillole per dormire era intatta. Bene, pensò. Questa volta non mi fermerà nessuno.

Adriano scese dal taxi. Era stanco e frastornato. Il servizio a bordo dell’aereo era stato pessimo, con hostess sgarbate e scostanti. Un bambino aveva pianto durante tutto il volo. Non avrebbe più volato con quella linea. Maledisse ancora una volta l’improvviso impegno di lavoro che lo aveva costretto a spostare il viaggio.
Il portone dello stabile dove viveva Anna era socchiuso. Abito al quarto piano, gli aveva scritto Anna, tempo prima. In ascensore il cuore cominciò ad accelerare i battiti. Non vedeva l’ora di stringerla fra le braccia.
Fu la vicina a dirgli che Anna era stata portata all’ospedale. “ Ha preso tante pillole. Se non fosse arrivata la donna delle pulizie sarebbe morta.” gli sussurrò con aria da cospiratrice.  “Ma forse è morta lo stesso.” aggiunse alzando il tono della voce. “Era bianca come un fantasma, quando l’hanno portata via”.
Mentre il taxi lo portava all’ospedale che la vicina gli aveva indicato si ritrovò a pregare. Forse non lo aveva mai fatto in vita sua.

L’aveva riportata a casa dopo poche ore. Si era disteso accanto a lei, sul letto, e l’aveva tenuta stretta, fino a che Anna non si era addormentata.  
Poi si era alzato, e si era diretto in cucina, per prendere un bicchier d’acqua.
L’angolo di un post-it rosso sporgeva dalla base del frigorifero. Adriano lo raccolse. “Adriano ha spostato il volo”, c’era scritto, “arriverà il 3 aprile, verso mezzogiorno.”
Tenendo il foglietto in mano entrò nella camera da letto di Anna.
“Amore, “  disse “ecco il perché. Il biglietto era caduto.”
Ma Anna stava ancora dormendo e non lo sentì.
Si chinò su di lei e le posò un bacio leggero sulle labbra.
“Sarò io la tua memoria, da adesso in poi. Sono tornato. Solo per te, sono tornato, amore mio.” mormorò mentre chiudeva la porta della stanza senza far rumore.

Bologna, 2/3 aprile 2009

Amore che vieni amore che vai

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4 risposte a Vecchio raccontino

  1. utente anonimo ha detto:

    Ma sì che è una buona lettura. Così incredibilmente romantico…
    Mirella

  2. Soriana ha detto:

    Mirella: Grazie! In effetti quell'"incredibilmente" ci sta proprio bene, Anche se tutto sommato un po' romantica lo sono, nella scrittura rifuggo dal romanticismo, così come comunemente inteso. E questo è uno dei pochissimi racconti in cui, come dire, mi son lasciata prendere la mano da questo… pericoloso sentire.

    Un abbraccio, Mirellina!

    Milvia

  3. accipicchia ha detto:

    Letto volentieri, coinvolgente come lo sono tutti i tuoi racconti. Diverso dagli altri, devo dire, con un finale in qualche modo "positivo" nonostante il gran numero di pastiglie ingoiato dalla protagonista. 
    E' vero quel che dici, in questa storia lasci più spazio al romanticismo, che comunque ben si adatta alla personalità di Anna.
    Ciao, amica mia, a presto.
    Piera

  4. Soriana ha detto:

    Piera: grazie, amica mia. Anche se questo è proprio un raccontino… Quando non so cosa scrivere, nel blog, pesco dalla mia cartelletta “racconti”, ma ormai, quelli che mi piacciono di più, li ho già tutti pubblicati…  E, come si dice,  ora sto raschiando il fondo del barile…
    Un grande, affettuoso abbraccio, Piera cara. E buona settimana!
    Milvia

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