(Un campo di calcio trasformato in cimitero in cui sono sepolte persone morte durante l’assedio, Sarajevo, 26 dicembre 1994. AP Photo/Rikard Larma)
L’assedio di Sarajevo: 6 aprile 1992
Nadira Sehovic:
Bosnia: 20 anni fa l’assedio, Sarajevo non dimentica
In 43 mesi sotto le bombe serbe 11.541 morti e 50 mila feriti. SARAJEVO – Non si poteva uscire né entrare, non c’era cibo, acqua, luce e gas, solo bombe: in quarantatré lunghi mesi di assedio, Sarajevo ha contato 20 anni fa i propri morti, 11.541, oltre a 50.000 feriti e mutilati, dilaniati dalle granate serbe cadute sulla città con una media di 330 al giorno, un macabro ‘reality show’ al quale tutto il mondo assisteva in diretta televisiva. Le Nazioni Unite attuarono un ponte aereo per gli aiuti umanitari, durato più di quello di Berlino, dispiegando 24 mila caschi blu in tutta la Bosnia, ma la gente nella capitale e nel resto del Paese continuò a morire per tre anni e mezzo. Le prime vittime furono due giovani donne, Suada Dilberovic e Olga Sucic, uccise dai cecchini serbi sul ponte che oggi porta il loro nome, mentre manifestavano per la pace il 5 aprile 1992.
Il giorno dopo la Comunità europea e gli Usa riconobbero l’indipendenza della Bosnia dalla Jugoslavia, e quel sei aprile divenne formalmente l’inizio dell’assedio di Sarajevo e della guerra in Bosnia. Quel giorno arrivò il primo bombardamento ad opera dell’artiglieria pesante dell’esercito federale, a grande maggioranza serba, che già da due mesi era dispiegata sulle colline tutt’intorno alla città: 1.600 bocche di fuoco, 100 carri armati, 180 blindati e 12.000 soldati stringevano la capitale in un cerchio di 62 chilometri. Un mese più tardi cambieranno solo le insegne per diventare l’esercito della ‘Repubblica serba di Bosnia’. Gli abitanti di Sarajevo riusciranno solo nell’estate del 1993 a fare una “breccia” nel muro di sangue e di terrore, scavando un tunnel sotto la pista dell’aeroporto.
Nel più lungo assedio della storia moderna le tecniche usate sembravano prese dalle cronache medievali: cibo, acqua, luce, gas, erano diventati strumenti di guerra. Gli assedianti controllavano anche i convogli di aiuti umanitari scortati dai Caschi blu, cercando di prendere Sarajevo, oltre che per fame e freddo, seminando terrore: bombardavano ospedali, scuole e biblioteche, i cecchini sparavano anche sui bimbi di pochi anni e le granate colpivano i civili mentre prendevano un caffé, attraversavano una strada, raccoglievano legna o prendevano l’acqua, e anche mentre seppellivano i propri morti. Ogni assembramento rischiava di diventare una strage, come quella del 27 maggio 1992, quando un colpo di mortaio uccise 23 persone in fila per comprare il pane, fino al massacro del mercato il 5 febbraio 1994 con 68 morti, e a quello del 28 agosto 1995, con 41 morti, che provocò la reazione della Nato e gli attacchi aerei contro le postazioni di artiglieria serbe.
La città ha resistito cercando in tutti i modi di mantenere in vita quello ‘spirito di Sarajevo’ dalle molte culture e molte religioni, e la memoria di una Bosnia in cui la tolleranza e la vita comune erano una tradizione secolare. “Se noi sarajevesi fossimo stati dichiarati un esperimento, le nostre conoscenze ora proverebbero scientificamente all’umanità che è possibile sopravvivere a una catastrofe e al terrore e rimanere nello stesso tempo esseri umani”, dice Suada Kapic, autrice del progetto di un futuro Museo dell’assedio la cui porta virtuale verrà aperta al pubblico di Internet il 5 aprile. “E’ la storia della natura umana – osserva Kapic – sia di quelli che uccidono che di coloro che sanno di poter essere uccisi in ogni momento e ogni luogo e proprio per questo fanno teatro, organizzano mostre, scrivono libri, scavano tunnel, costruiscono stufe a legna, coltivano orti, realizzano festival del cinema, spettacoli per bambini.” Molti protagonisti di quella resistenza oggi si sentono accerchiati come vent’anni fa, stretti come in una camicia di forza dall’accordo di pace di Dayton che ha suggellato la divisione etnica impedendo alla Bosnia di avere un futuro di normalità. Il 6 aprile Sarajevo commemorerà i morti dell’ultima guerra con un concerto davanti a 11.541 sedie vuote, ricordando come ogni anno anche un altro sei aprile, quello del 1945 quando i partigiani di Tito liberarono la città dall’occupazione nazista.
(Nadira Sehovic)
(Questo pomeriggio, dalle 15 alle 18, Marino Sinibaldi condurrà, su Radio3, Fahrenheit, che sarà completamente dedicata all’assedio di Sarajevo)
Terremoto de L’Aquila: 6 aprile 2003, ore 3,32
Giustino Parisse (Caporedattore de Il Centro-L’Aquila)
Un anno fa ho perso la mia famiglia, il mio paese, Onna, e 40 dei suoi abitanti. E ho perso L’Aquila. Dopo un anno il dolore è, se possibile, ancora più forte. Questa è una lettera ai miei figli. Non so se la leggeranno. Ma sentivo di doverla scrivere.
Caro Domenico, cara Maria Paola,
stamattina, come ogni mattina da un anno ormai, ho creduto, nel mio dormiveglia, di sentire i rumori di una famiglia felice: porte che si aprono, l’odore del caffè che arriva dalla cucina, il libro che non si trova, l’ultimo ripasso prima dell’interrogazione, e poi l’uscio che si chiude, le portiere della macchina che sbattono, l’inizio di un nuovo giorno pieno di affanni, ma anche di gioie e fiducia nel futuro.
Da un anno non sento più rumori, se non quello del tuffo al cuore quando, come se non volessi arrendermi all’evidenza, scopro che le vostre camerette non ci sono più, che là, sotto quelle macerie avete lasciato i sogni, le vostre cose, il cellulare per inviare i messaggi agli amici, il computer per studiare e per chattare, il diario con l’annotazione di un pensiero, di un appuntamento, di una festa alla quale non poter rinunciare.
Quella notte di un anno fa, eravamo tutti in quella casa che credevamo la più bella e sicura del mondo.
Ero io che ve lo avevo fatto credere e voi di papà avevate fiducia. Io ho tradito la vostra fiducia. Quando tu, Maria Paola, all’una di quella notte maledetta mi hai detto: papà, qui moriamo tutti, io ti ho rassicurato e ho segnato il tuo triste destino.
Quel grido che alle 3,32 è arrivato dalla cameretta di Domenico non era «Aiuto, aiuto». Era «Papà, papà». Quella notte non sono stato capace di salvarvi, mi sono arreso di fronte a una montagna di macerie, alla polvere che bloccava il respiro, all’incubo del quale non riuscivo a vedere i contorni. Mentre voi ci lasciavate, papà e mamma erano lì, in pigiama a cercare l’impossibile, a fare nulla, perché nulla c’era da fare, nemmeno piangere e gridare. Noi eravamo vivi, io che vi avevo costruito una bara di sassi ero vivo e non so ancora spiegarmi perché. In questi mesi tanto si è parlato dei crolli e delle responsabilità. Io ho avuto la grande colpa di fidarmi di chi ci rassicurava, come voi vi siete fidati di me. Ma della vostra morte sono il primo colpevole: non cerco alibi o giustificazioni anche se mi aspetto anch’io che la giustizia degli uomini faccia chiarezza fino in fondo e stabilisca se prima del sisma ci siano state leggerezze, superficialità, incompetenze. Per quanto mi riguarda chi ha scelto di farmi restare vivo mi ha condannato senza appello: non sono morto quella notte, me ne andrò pian piano fra i dubbi, i rimorsi, i sensi di colpa. Voi non meritavate di morire così. Io forse non meritavo di restare in questo mondo.
Oggi, un anno dopo, il dolore è più forte che mai.Ogni volta che vi penso, e lo faccio ogni ora, ogni minuto, ogni secondo, per prima cosa vi chiedo perdono. Due giorni fa, da solo come sempre, sono venuto a farvi visita al cimitero. Ho trovato tanti fiori e piccoli oggetti che vi hanno regalato i cugini e gli amici. È stato l’unico momento in cui ho sorriso: non vi hanno dimenticato e questa per me è la più grande consolazione.
In questo anno sono andato in tante scuole a parlare con ragazzi che hanno più o meno la vostra età. In ognuno di loro ho visto i vostri volti.
Davanti alla tua foto, cara Maria Paola, spesso non reggo all’emozione. Quel tuo sguardo quando eri ancora fra noi, per me era il tuo modo per approvare o disapprovare una cosa che avevo detto o fatto. Per me contava solo quel tuo giudizio ed ero certo che mi avresti accompagnato negli anni del tramonto regalandomi tanti momenti sereni senza mai essere invadente, senza mai chiedere nulla, sapendo che su tuo padre ci potevi contare e io potevo contare su di te. Ricordo il giorno quando fra me e te è come se fosse scoppiata una scintilla. Tu sai che io non sono mai stato un padre da bacetto della buona notte. E di questo, credimi, non me ne trovo pentito. Non ho mai sentito il bisogno di dirti ogni secondo che ti volevo bene, tu sapevi che te ne volevo e questo bastava a entrambi. Nel maggio del 2007 io e mamma ci siamo presi una bella paura. Ti era spuntata una piccola ciste sul collo. Per più di tre mesi abbiamo cercato di capire se fosse o meno una cosa grave. Alla fine i medici ci hanno rassicurato ma hanno anche consigliato di toglierla. Era in una posizione molto delicata, l’intervento chirurgico è durato più di tre ore. Siamo stati con il fiato sospeso. Quando ti hanno riportato in camera è iniziato il risveglio dall’anestesia. Tu tremavi di freddo e pronunciavi frasi sconnesse. Io ero lì vicino a te e non riuscivo a bloccare l’ansia. Allora ho fatto un gesto fra i più normali del mondo, ho preso la tua mano sinistra e l’ho stretta forte. Ho visto che ti sei tranquillizzata, mi hai fatto un sorriso. Ti ho chiesto: come stai? Bene, mi hai risposto. Non era vero ma credo che tu l’avessi detto perchè ti sei sentita sicura e protetta. Come ti sentivi sicura e protetta quella notte, e io ho tradito la tua fiducia. Pochi giorni prima del terremoto mi avevi chiesto: perché un giorno non ci facciamo una passeggiata? Nella tua voce c’era una sottile ironia. Sapevi che anche per fare poche centinaia di metri prendevo la macchina. Eppure quella passeggiata che non ho fatto con te è uno dei tormenti delle mie notti. Quando tutto fila liscio sembra che non ci sia mai tempo per fare le cose importanti. Poi, quando le cose importanti ti vengono a mancare ti accorgi di quanto era vuota la tua vita mentre inseguivi il nulla correndo di qua e di là come una trottola.
Un anniversario che mi riguarda: 6 aprile 1972
Mi verrebbe da dire una pietra miliare della mia vita. Che, se le cose fossero andate in un’altra maniera, oggi festeggerei. Nessun rimpianto, però. La vita toglie, la vita dà. E i piatti della mia bilancia, alla fine, non sono poi troppo… sbilanciati.
Venerdì di Pasqua: 6 aprile 2012
Lascio qui, oggi, l’augurio per una Pasqua che sia, per voi tutti, la più serena possibile. Mi viene in mente questa, come frase augurale: Restiamo umani. È la sollecitazione che Vittorio Arrigoni ha lanciato al mondo. Credo che racchiuda tanta positività.
Restiamo umani, quindi.
Le immagini:
Assedio di Saraievo: Il post
Terremoto Aquila: Giovanni Manno
Mio Anniversario: Comune Olgiate
Auguri Pasqua: qui
CRISTO E’ RISORTO!!!!
LA GIOIA PASQUALE SIA NEL TUO CUORE, CARA MILVIA!
GIUSEPPE
Ricambio con affetto il tuo augurio, caro Giuseppe!
Bisognerebbe essere di più a restare umani, invero!
Molto precisa e emozionante la ricostruzione della storia tragica di quell’assedio.
Buona Pasqua!
Grazie, Adriano. Buona Pasqua anche a te, con la speranza che “restare umani” diventi il primo comandamento.
Ecco, ho finalmente trovato il tempo di leggere queste straordinarie testimonianze.
Penso che la loro lunghezza e la tragicità degli argomenti (a parte quella tua personale, volutamente né lunga né tragica), abbiano sviato molti tuoi abituali lettori.
Ma, superati quegli ostacoli, alla fine ci si sente arricchiti di quella umanità invocata da Vittorio Arrigoni, di cui, fra l’altro, fra pochi giorni ricorre pure il martirio.
Visitai Serajevo, circa cinque anni fa, alloggiandovi diversi giorni. Ricordo i buchi dei proiettili nei palazzoni, l’impressione di una grande città gentile, molto vivace e poco nevrotica, la mescolanza di etnie e soprattutto di modi di abbigliarsi, dal burqa alla minigonna, di persone che magari passeggiavano insieme. Tanto che mi ha un po’ stupito una corrispondenza ascoltata nella citata trasmissione di Radio3, che lamentava come tale tradizionale mescolanza sia andata perduta negli anni dopo l’assedio, a favore di una quasi esclusività di matrice culturale islamica.
Poco da aggiungere alle dolenti e terribili parole di quel padre orfano dei figli; il senso di colpa è spesso un’eredità ingiusta quanto letale.
Grazie, carissima, per queste ricche segnalazioni.
C’è una cosa che avrei voluto scrivere nel post, ma lo avrei reso ancora più lungo e ho lasciato perdere. E quindi lo scrivo ora.
Se penso al terribile assedio di Serajevo, e a tutta la guerra nell’ex Jugoslavia, provo vergogna. Perché, in quel periodo, ero distratta, era come se tutto
l’orrore che avveniva così relativamente vicino a me, mi scivolasse addosso. Non proprio
indifferente, ma quasi. Sì, ci pensavo quando di notte sentivo il rumore gli aerei che passavano sopra casa, diretti sull’altra sponda dell’Adriatico, ero d’accordo con mio marito a non unirci ai nostri amici che andavano a passare i fine settimana a Porec, perché, dicevamo, è immorale andarsi a divertire in un paese che è in guerra. Ma poi… poi basta. Indignazione blanda, la mia, mi sembra di ricordare. E di questo mi vergogno.
Forse, in quel periodo, non mi ricordavo di… restare umana, chissà…
Grazie di aver ricordato che fra pochi giorni è l’anniversario della morte di Vic. Bisogna proprio che ci pensiamo di nuovo a fargli intestare una strada…
Grazie anche del contributo a questo post. Si sentiva un po’… orfano, il mio blog, degli articolati, profondi commenti del caro amico Franz…
La Storia (obbligatoria la lettera maiuscola) affascina il colto e l’inclita con il suo interminabile moto ondoso che non ci fornisce mai una riscrittura, e quindi di fatto una lettura, definitiva ed univoca.
Riflettere sull’intrecciarsi delle date e degli anniversari ha una potenza evocativa a volte sovrumana.
Che può sconfinare nel gioco autoironico di chi ha compiuto 33 anni il venerdì santo del 1990, o può sconfinare nella tragedia greca di date che sembrano una predestinazione.
Che l’Aquila e Sarajevo siano città gemelle nello stupro subito (seppur nel primo caso l’idiozia umana ha avuto un sopravvento non immediato e nel secondo sia stata l’unica causa) è una di quelle metafisiche verità che penetrano come laceranti trapani nella mente e si scrivono a fuoco nella memoria.
A Sarajevo come all’Aquila, il dolore della povera gente ha appena sfiorato gli anodini cinici equilibri dei potenti.
Il più struggente memento, prima della ricorrenza più altamente simbolica che la nostra cultura paracristiana offre alla riflessione di tutti.
Mi soffermo solo su un punto, su una data, voglio dire: 13 aprile. Che apparentemente manca, ma sta nascosta nel tuo commento. E così, anche se con tre giorni di ritardo, beh…insomma… Auguri!