Quel pomeriggio del 2 agosto, e poi il giorno dopo. E tutti i giorni a venire.
In un corso di psicologia che frequentai tanti anni fa, un docente ripeteva spesso che dobbiamo imparare a indossare i mocassini degli altri. Che forse è una metafora più forte della solita “ mettersi nei panni degli altri”, perché con i mocassini (immagino quelli morbidi usati dagli indiani di America, con le suole sottili), riesci a sentire tutte le imperfezioni del terreno su cui stai camminando e la pianta dei piedi avverte dolorosamente l’impatto con i sassi disseminati sul percorso.
Infilare ai piedi i mocassini di chi è sopravvissuto alla strage terribile che, trentadue anni fa, ha prodotto una ferita insanabile nel corpo della mia città: è questo che tento di fare, oggi. Con il termine “sopravvissuto” non intendo, questa volta, i feriti, né chi era in stazione in quel momento tremendo, ed è rimasto illeso. Sopravvissuto è anche chi era lontano da quel luogo di apocalisse e terrore. Sopravvissuto è anche chi aspettava con gioia, in un’altra stazione, l’arrivo o il ritorno di un famigliare; sopravvissuto è chi aveva salutato il figlio, i genitori, una persona amata, augurandole buon viaggio, e poi se ne era tornato a casa, tranquillo, e magari contento che il suo caro in partenza potesse finalmente concedersi una vacanza. Un sopravvivere che dura da trentadue anni. E sopravvivere è senza dubbio diverso da vivere.
Indosso i loro mocassini e cerco di immaginare cosa possono aver provato il giorno dopo, o il pomeriggio stesso del 2 agosto: provano incredulità, senso di irrealtà, mentre un altro treno, o un’automobile, li portano verso il luogo della strage, dopo aver gettato in fretta in una borsa quelle due tre cose che sono indispensabili quando ci si allontana da casa, o forse neanche quelle, forse niente borsa, solo la pesantezza dell’angoscia come bagaglio, e la distanza che sembra non accorciarsi, e le parole strozzate dal pianto, e l’arrivo in una città che non si conosce, e l’affanno della ricerca di un nome, di un volto, di un corpo, con la speranza di non trovarlo in una gelida camera mortuaria, e le preghiere sommesse, e le preghiere urlate, e il rifiuto della realtà, e lo sgomento davanti al letto d’ospedale sul quale giace quel ragazzo, quella donna, quell’uomo che si stenta quasi a riconoscere, tanto il suo corpo è diverso da quello che da sempre si conosce, e l’attesa di un verdetto di vita o di morte (dottore, la prego), e l’insorgere lento della consapevolezza che nulla, da quel momento, sarà più come prima, e il senso di colpa, assurdo ma inevitabile, per non essere stati lì, quella mattina, o il giorno prima, mentre il proprio caro veniva dilaniato, per non essere stati al suo posto, o accanto a lui?
Il fiume rosso e impetuoso della rabbia forse non ha ancora invaso le cellule dei sopravvissuti. Quel pomeriggio, il giorno dopo, i sopravvissuti sono naufraghi in un oceano di dolore. E tanti di loro, tutti, forse, lo sono ancora oggi.
Era d’obbligo il punto interrogativo, dopo il lungo elenco delle sensazioni che ho immaginato abbiano provato i sopravvissuti (nel senso che ho voluto dare a questo termine) alla strage del 2 agosto 1980. Perché per quanto io abbia tentato di indossare i loro mocassini, non riuscirò mai a provare interamente e a descrivere in modo appropriato la loro disperazione. E forse (ci sto pensando ora, mentre mi preparo a pubblicare questo post) indossare i loro mocassini è stato un atto di presunzione, da parte mia. E, forse, dovrei scusarmi con loro, per questo tentativo di immedesimazione. Però non posso fare a meno di sentirli a me vicini, e di far mio, anche se in minima parte, il loro dolore.
E una cosa è certa: non ho dimenticato, non dimentico, non dimenticherò mai.
Qui troverete molte notizie relative alla strage.
Questo è il programma della manifestazione di oggi a Bologna
E questa è una canzone dal titolo emblemantico: Non ho scordato
Cara Milvia, entri nel cuore di tutti con le tue parole…e non ci sono altre parole per queste stragi. Oltre ai morti, ci sono anche tanti sopravvisuti che non vivono più una vita normale sia per la perdita di una familiare sia per le ferite che hanno lasciato sui loro corpi delle invalidità permanenti dalla cecità alla perdita delle gambe o quant’altro. Insomma una strage senza fine e senza colpevoli: Ti ammiro per ciò che fai e ciò che scrivi.
Fare, faccio ben poco, Mara cara… Se potessi tornare indietro nel tempo credo che sceglierei un altro percorso di vita, che potrebbe davvero darmi la possibilità di fare di più. Ma, come si dice, indietro non si torna…
Un abbraccio.
grazie delle tue parole gentili x me : è piacere mio averti trovato. anche se pare un po’ osceno dire piacere oggi ch’è sangue indelebile per chi ha memoria.
ciao
Incontrare persone come te, in Rete, rende la realtà un po’ più luminosa.
Ciao!
E i più vecchi come me ricordano vividamente anche come appresero la notizia e come nacque subito la mobilitazione di massa in quel triste giorno!
Ricordi che sono anche i miei, vivissimi.
L’immagine della ferita grave è quella che più ci può aiutare a inquadrare (a capire certamente no) anche un episodio come quello, nella vita di una città e dei suoi abitanti e ospiti.
Ci può aiutare a indossare i mocassini della realtà, che in casi come questo sembrano terribilmente stretti.
La natura di ogni organismo sano ha una forte dotazione di rinnovamento che permette di cicatrizzare le ferite, anche quelle gravi.
Ma la nostra società non è un organismo sano, e fa sanguinare ancora e sempre quella ferita, mentre le sue componenti davvero sane non sono esenti dal dolore, ma anche dalla determinazione, che sembra crescere sempre più con il tempo, ad ottenere verità e giustizia, e un mondo dove sia possibile restare umani.
“Restare umani”: è anche questo il significato della manifestazione del 2 agosto. Per questo motivo vi partecipo, non solo per solidarietà verso le vittime, non solo perché pure io vorrei ottenere ” verità e giustizia”, ma anche perché mi conforta vedere che siamo ancora in tanti, appartenenti a generazioni diverse, dopo 32 anni, a non volere dimenticare. E credo che sia lo stesso conforto che provi anche tu.