Ripescaggi

Dovrei fare telefonate, rispondere a mail, trovare nuovi argomenti per il blog, vorrei scrivere la mia impressione di lettura su “Mala suerte”, l’avvincente romanzo di Marilù Oliva, dovrei organizzare partenze, prenotare alloggi… E invece non ho la forza di fare nulla. Sarà il caldo che stringe la città in un abbraccio un po’ troppo prolungato, un po’ troppo intimo? Mah… A dire il vero le alte temperature non sono mai state un problema, per me, però, per giustificare questa mia apatia, preferisco dar colpa a Minosse & C., piuttosto che, vogliamo dirlo? piuttosto che all’avanzare dell’età, che brucia (più del solleone) neuroni e varie cellule cerebrali.
Tutto questo preambolo per dire che, per qualche giorno, mi dedicherò al ripescaggio di vecchi post, scelti un po’ per caso, e un po’ no. Un po’ autoreferenziali e un po’ no.

Inizio con questo, pubblicato nell’aprile 2007, che riporta le mie impressioni di un viaggio che feci a Pasqua di quell’anno in Israele. Buona lettura!

Salam Shalom!

Ecco, vi saluto così, oggi. Con queste due parole tanto simili, che hanno, credo, la stessa radice, pur appartenendo a due popoli diversi, e, purtroppo, ancora oggi nemici (o forse no, non sono i popoli, a essere nemici). 
Voglio iniziare con queste due parole di saluto augurale, quelle che più frequentemente ho ascoltato nel mio soggiorno in Israele. Con queste due parole che significano PACE. 
Non mi soffermerò a descrivere luoghi specifici, i villaggi con le case sparse sulle colline come greggi,  dei luoghi di culto che sopravvivono gli uni accanto agli altri: chiese, sinagoghe,  moschee. Non cercherò neppure di fare un’analisi politica della situazione che incombe in quella nazione: non ne sono davvero in grado. Tutto sommato non ne so di più di quando sono partita dall’Italia.

Vorrei parlare, invece, di alberi, e di pietre. E di cemento.

Gli alberi della Foresta dei Giusti, sparsi intorno al Yad Vashem, il Memoriale della Sohah in Gerusalemme: ogni albero piantato per ricordare i non ebrei che hanno rischiato la loro vita per salvare fratelli ebrei durante l’aberrante periodo dell’Olocausto. Tanti alberi, tanti nomi. Ma l’orrore per la ingiusta fine dei sei milioni di ebrei che nessuno è riuscito a salvare, non riesce a essere mitigato dalla serenità che questa aerea sembra emanare. Non è stato fatto abbastanza per salvarli, ed è un delitto che l’umanità si porterà sempre addosso.

Ma ci sono altri alberi. Gli alberi della foresta di Gerusalemme, che svettano  su una collina dove sorgeva un villaggio palestinese di agricoltori: di quel villaggio, ora, rimangono solo i segni delle coltivazioni a terrazza. Gli abitanti o sono stati massacrati, o sono stati costretti a fuggire dall’esercito israeliano. Alberi, quindi, che sorgono su un terreno che gronda sangue.

Le pietre, labirinti di lapidi con incisi nomi e nomi e nomi, e ancora nomi: quelli degli ebrei morti nei campi di concentramento. Ci si aggira in Yad Vashem e ci si sente soffocare, sprofondare, ci si sente morire, sì, proprio morire, a scorrerli, a leggerne le date di nascita, a immaginarne i volti, le voci, la loro vita. La loro morte.
 A un certo punto non ho più retto, e mi sono vigliaccamente allontanata da quelle testimonianze di orrore.

Altre pietre: quelle delle case di famiglie palestinesi, pietre che forse ancora sono impregnate dallo speziato profumo del cibo arabo: molte, troppe di queste pietre, ora, circondano la vita di famiglie ebree, dopo che i legittimi proprietari sono stati costretti ad andarsene.

E poi. 
Il  cemento: quello del “muro della vergogna(*)  quello del muro di separazione, che è altissimo, orribile, che sembra davvero cancellare ogni speranza non solo di riconciliazione, ma ogni speranza di vita. Da una parte e dall’altra. Perché credo che sia per i Palestinesi, che non possono uscire dai villaggi segregati –i permessi vengono negati in maniera vergognosamente frequente- sia per gli Ebrei, questo sia il vero muro della inconciliabilazione. Anche se in parte ho constatato che  tantissimi Israeliani ne sono sdegnati. Quello che ho provato trovandomici davanti non riesco neppure a raccontarlo.

Ah, anche di libri, vorrei parlare: quelli del periodo nazista, esposti al Yad Vashem. Libri per l’infanzia, libri scolastici dove l’ebreo era raffigurato in atteggiamenti ridicoli, lascivi, attraverso immagini caricaturali, in cui venivano portate all’eccesso e deformate le caratteristiche dei volti giudei. Ebbene, la stessa cosa si può notare ora nei testi adottati nelle scuole d’Israele: naturalmente è la caricatura dell’arabo, che vi compare. (**)

E ora vorrei parlare di voci, e ancora di case. Le voci di amiche e amici israeliani e palestinesi che le mie due compagne di viaggio e io abbiamo incontrato. Certo, persone di cultura, insegnanti universitari, registri cinematografici, medici, traduttori. Ma non solo. Ci siamo imbattuti in tassisti, camerieri, mercanti dei souk,  e in  gente comune incontrata per la strada. Abbiamo parlato anche con loro, e non abbiamo mai trovato voci contrapposte, ma un’unica voce, un’unica domanda: perché ci deve essere una differenza che porta all’odio? si chiedono tutti. Che importanza ha se tu credi in un Dio, in un Profeta, e io in un altro? E in tutti, una perentoria affermazione: anche se del conflitto non si vede la fine, se sembra regnare solo la desolazione, non bisogna mai, in maniera assoluta, rinunciare alla speranza. Rinunciare a sperare vorrebbe dire morire. 


E le case, poi: case di Palestinesi dove amici Ebrei sono invitati a cena, o per un the. E viceversa. I legami fra alcuni di loro sono nati in seguito a un lutto: famiglie ebree che hanno perduto una figlia (ricordate Nurit Peled di cui ho parlato in altri post?) in seguito a un attentato di un kamikaze, e palestinesi che hanno avuto un figlio ucciso dall’esercito israeliano, o un parente ucciso da un colono. Esiste a questo proposito una bellissima associazione: Parent´s Circle,  che accomuna appunto persone che hanno subito perdite a causa di una o dell’altra parte. E non mi sembra, questa, una cosa da sottovalutare.
Ho scoperto che ci sono molte altre associazioni, in Israele, che si battono per la tolleranza reciproca. Ho scoperto che non sono pochi i costruttori di Pace, anche se, spesso, devono pagare prezzi alti per questo loro atteggiamento.

E allora: nonostante i tanti soldati che si aggirano nelle città, nelle stazioni degli autobus, ovunque,  soldati che sembrano quasi adolescenti,  con le ragazze che portano fucili che paiono più grandi di loro; nonostante i controlli da parte della polizia ( a Haifa il primo giorno di Pesah, all’entrata di un parco per bambini controllavano tutti, dai neonati ai loro nonni);  nonostante le indubbie soprafazioni dello stato di Israele nei confronti dei Palestinesi, nonostante i tanti accadimenti che non sembrano lasciare speranza, io sono felice di essere stata in Israele: forse ho capito che le popolazione, Ebrei e Palestinesi, non vogliono distruggersi a vicenda. Soni i capi, i loro governanti che vogliono mandare avanti questa spirale d’odio, e strumentalizzano i più deboli dei loro sudditi. Questo, ho capito. Forse mi sbaglio. Spero di no.

Corollari:
Un frate francescano originario di Treviso, ma  che vive a Gerusalemme, incontrato al Santo Sepolcro la domenica delle Palme, mi ha detto che Israele ha troppo memoria: non può continuare a crescere continuando a ricordare perennemente la Sohah. Questa sorta di celebrazione continua dell’Olocausto impedisce una buona crescita, mantiene la paura, non permette una visione della Storia attuale non offuscata dall’odio.  Non so se abbia ragione. Dimenticare quell’atrocità mi parrebbe blasfemo. Forse, però, trarre lezione da ciò che gli Ebrei hanno subito, per cercare di non essere a loro volta soprafattori e aguzzini, questo, sì, forse sarebbe giusto.

Altri hanno affermato che Israele è uno stato malato, uno Stato con un virus.

All’aeroporto di Tel Aviv, mi hanno bloccato a un controllo: avevano individuato dei libri che avevo in valigia. Hanno voluto sapere che libri erano e dove li avevo acquistati. Francamente sono rimasta allibita: mi è sembrato un atteggiamento, quello delle guardie israeliane, più simile a quello di integralisti islamici.

Conversazione fra un signore italiano (Italia del nord) e una signora straniera (forse dell’Europa dell’Est) in fila in attesa dell’imbarco sul volo Vienna Bologna:

Lei: Ho visto molte cose, in Italia, ma più di tutte mi è piaciuta la Sicilia. La Sicilia è bellissima.

Lui: (con espressione un po’ schifata): Sì, sì, sarà anche bella. Ma a me- (espressione schifata in aumento)- non interessa.

Ecco: avevo appena lasciato uno dei paesi più intolleranti del mondo, avendo ancora nel cuore e nelle orecchie, nonostante tutto,  parole di pace e tolleranza… Ma ora stavo tornando in Italia…

Ringrazio tutti coloro che mi hanno augurato buon viaggio. A chi ha parlato di coraggio da parte mia, posso solo dire che non ci vuole nessun coraggio, per andare là come turista. Il coraggio ci vuole per vivere in quella terra e continuare a sperare.

Questa foto l’ho scattata davanti a un tratto di quel malefico muro. Per fortuna non è solo color  grigio cemento, quello scempio. Ci sono tanti graffiti, lasciati da Palestinesi e, spero, anche da Ebrei. L’immagine che ho scelto mi piace molto.  Sono contenta anche che rappresenti una donna, e spero che una donna l’abbia immortalata su quel cemento. Se riesco ne farò un poster. (E così ho fatto, e ora quella immagine di donna mi guarda da tempo da una parete del mio studio –nota del 6 agosto 2012-)

(*) L’articolo è del 2003, ma dà l’idea di cosa significhi questa intollerabile costruzione. E oggi la situazione è ancora peggiorata.
(**) Su questo argomento è appena uscito (aprile 2012) un libro di Nurit Peled: “Palestine in Israeli Books: Ideology and Propaganda in Education“. E, in effetti, era stata proprio Nurit a parlarmene, in quel mio viaggio del 2007.

Kufia, canto per la Palestina

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2 risposte a Ripescaggi

  1. mirella ha detto:

    L’ho riletto con immutato intersse. Ricordo Nurit Peled che a un festa dell’Unità di parecchi anni fa illustrò come erano descritti i Palestinesi nei libri scolastici israeliani (il problema arabo) e come questo contribuisse a mantenere la divisione e l’odio verso di loro.
    Commovente il coro dei bambini.

  2. Milvia ha detto:

    Mi stupiscono sempre di più, anzi devo dire che proprio non mi capacito, per certe analogie fra alcune modalità dei nazisti usate contro gli Ebrei e quelle degli israeliani usare contro i Palestinesi.

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