Continua l’afa (ormai quasi insopportabile anche per me) e continua di conseguenza una certa voglia di far niente. Un mio nuovo amico mi ha ricordato l’intervista che feci a Marino Sinibaldi durante il Salone del Libro di Torino il 13 maggio 2007, e che pubblicai nel blog qualche giorno dopo.
Ed è questa intervista che vi ripropongo, in questa notte afosa di dopo-ferragosto.
Grazie, Marino! (Post del 18 maggio 2008)
Inauguro oggi una nuova categoria di post: “A domanda risponde”. E la prima cosa che vi ripongo, con cura e affetto, è questa intervista che Marino Sinibaldi mi ha rilasciato domenica pomeriggio a Torino. Marino è un uomo gentilissimo, il volto illuminato da un sorriso. E’ una persona attenta e disponibile. E’ una persona che sa un sacco di cose sui libri e non solo, ma che non ti fa mai pesare la sua cultura. Le mie domande sono forse banali. Le sue risposte, no. Erano decenni che non intervistavo qualcuno. Non so come sia riuscita, questa intervista. Ma so che sono molto, ma molto felice di aver avuto questa occasione.
D: Marino, quale sogno avevi, da bambino?
R: Da bambino volevo fare il calciatore, poi il musicista rock… Poi visto che questi sogni sono falliti, quello che ho fatto. Insomma, quello che sto facendo adesso è… il risultato di due fallimenti.
D: Il tuo primo rapporto con la radio come ascoltatore?
R: Il primo non ricordo. Però è un rapporto molto forte quello che ho con la radio. Io credo di appartenere all’ultima generazione che è più radiofonica, che televisiva. Sono nato nello stesso anno in cui in Italia è arrivata la televisione, ma allora la tv non si vedeva fino alla sera e io tutto il giorno, mentre studiavo, ascoltavo musica alla radio e le cronache delle partite di calcio.
D: Cosa ne pensi della frase che è diventata quasi lo slogan del film “100 chiodi” di Olmi: “Tutti i libri del mondo non valgono un caffé con un amico.”?
R: Mah, ancora non ho capito quello che ne penso… potrei cambiare idea ogni giorno. Per un verso è vero che è una frase ovvia. Diciamo che il concetto lo esprime meglio il pompiere di Fahrenheit : “I romanzi non sono la vita…” Questo è un modo più bello per dire la stessa cosa. I romanzi solo in un modo strano e paradossale aiutano a vivere: sono il prodotto di una insoddisfazione del vivere, non la cura per vivere meglio. Ecco, questo è il modo in cui intendo la frase di Olmi. Per altro è una frase, è un film. E’ una frase da vecchi, e io quindi un po’ mi ci riconosco, no? Insomma. è come se dicesse una cosa rivoluzionaria solo per noi che leggiamo, perché è ovvio che i 9/10 del Paese prendono il caffé con un amico e pochi leggono. E siamo proprio noi a sentirci feriti da quella frase, perché la troviamo eccessivamente aggressiva…Trovo più bella l’immagine dei libri inchiodati. L’immagine dei libri inchiodati è una cosa vera, che tocca qualunque lettore e in un modo alto. La cosa grande dei libri è che sono già talmente autocritici che…ecco, io dico sempre che Don Chisciotte, che è il primo lettore, è già un lettore autocritico, è già un lettore che è l’esaltazione e anche la parodia e anche la critica della lettura, per cui la critica che la lettura ha partorito di se stessa nel corso degli anni è molto più avanti della frase di Olmi. Invece l’immagine dei libri inchiodati no, quella è un immagine davvero shockante, davvero stimolante. Quella è provocatoria.
D: Fiera del libro di Torino, Festival della letteratura di Mantova, galassia Gutenberg a Napoli, Più libri più liberi a Roma, per citare solo gli eventi che tu e la tua trasmissione seguite in diretta; ma credo che le manifestazioni che girano intorno ai libri siano centinaia, se non migliaia. E basta guardare qui a Torino, il pubblico non manca. Come si coniuga tutto questo con l’asserzione che gli italiani non leggono?
R: Questa è una domanda interessante, perché è il segno che siamo in un Paese strano, dove tutti sono minoranze. Però certe minoranze sono come gli animali de “La fattoria degli animali”, tutti siamo uguali, ma certi animali sono più uguali degli altri. In questi luoghi c’è sempre molta gente, negli stadi ce n’è sempre di meno, però quelli del calcio sono una minoranza che domina le altre. A teatro ci va un sacco di gente, ma se uno legge i giornali sembra che il teatro sia un luogo irrilevante. Sì, siamo un paese strano in cui non ci sono più comportamenti di massa, di maggioranza, né sul piano politico, né su quello culturale: Però alcune minoranze, come quelle di chi guarda la tv, si arrogano un potere mediatico molto più ampio. E’ giusto rivendicare il fatto che i lettori siano una minoranza, nemmeno inferiore poi, come numero, ad altre che hanno più potere. Un altro aspetto importante è che questa minoranza, negli ultimi anni, ha preso consapevolezza di sé: da quando l’Italia è diventata un paese di minoranze, anche la minoranza dei lettori ha assunto una specie di orgoglio della propria appartenenza. Allora, la cosa importante di queste manifestazioni non è tanto il fatto se allarghi o no l’area della lettura, perché quella dipende più dalle politiche scolastiche e culturali. La cosa importante è che la cambino qualitativamente, trasformando il lettore da animale solitario come è stato per tanti anni, in qualcuno che ama condividere, che ama socializzare.
D: So che per molti anni hai fatto il bibliotecario. Sembra che le biblioteche pubbliche americane stiano ripulendo i loro scaffali dai classici, non importa se si tratta di Hemingwai o di Steinbeck, per andare incontro alle esigenze degli utenti: ma è questa la sola funzione delle biblioteche, oggi? Tenere le Melisse P, le Tamaro, i Moccia e eliminare Pirandello e Foscolo? Il tuo parere?
R: Sì, ho fatto il bibliotecario, per cui sono un po’ vaccinato; io ti potrei rispondere “no, che scandalo!!!” Ma vedi, il rischio che corrono le biblioteche, almeno in Italia, non è quello di non avere Pirandello o Foscolo, che ci sono, ma di non tenere Geda o Milena Agus, cioè i libri contemporanei che a noi piacciono. Io penso che piuttosto che scandalizzarci per cose che secondo me sono marginali, noi dovremmo pretendere la trasformazione delle biblioteche. In larga parte si sono trasformate, si trasformano, ma lo fanno in maniera discontinua: magari in certi luoghi sono ottime, in altri sono assenti. Ma dove le biblioteche funzionano sono posti di aggregazione e di lettura formidabili, sono davvero, come a Scampia, dei grandi luoghi di resistenza alla disgregazione metropolitana e anche alla violenza giovanile: questo, secondo me, è importante. Invece i giornali si scandalizzano per un libro ritirato, cosa in cui io non crederò mai, peraltro, perché le biblioteche hanno un obbligo di conservazione che le spinge semmai a essere troppo conservatrici e non troppo rivoluzionarie, troppo ribelli. Io penso che le biblioteche, le biblioteche comunali, quelle di quartiere, debbano tenere anche i libri recenti, contemporanei. Altrimenti il legame con le generazioni si interrompe.
D: Il libro che ti ha cambiato la vita? (Era un vecchio gioco di Fahrenheit, ricordi?)
R: Non c’è un libro che cambia la vita, secondo me, purtroppo o per fortuna. Un libro non cambia la vita, però la somma dei libri sì. Indubbiamente, mentre leggevo il Capitale di Marx cambiava la mia visione del mondo, ma anche con Don Chisciotte, anche con l’introduzione alla Psicanalisi di Freud, anche con i libri di Gustaw Herling sulla Russia, la Polonia, l’Europa dell’Est. E con tanti altri… Quello di Fahrenheit era un gioco che mi spaventava: in realtà non ci può essere una vita cambiata da un unico libro. La vera forza dei libri è che ogni giorno un libro che leggi ti cambia un pezzetto di vita. Sarei spaventato da una vita cambiata da un unico libro, insomma.
D: E ora una domanda leggerissima: quale canzone, o musica, ti evoca un momento bellissimo della tua vita?
R: Image, di Lenon, mi ricorda un momento bello. Però la canzone più intensa era Ragazzo triste di Patty Pravo, che non mi ricorda un momento bello, ma mi ricorda quando avevo dodici, tredici anni e le cose erano proprio importanti: un suono di periferia, un angolo della piccola città dove ho ascoltato Ragazzo triste me lo ricordo ancora, perché prendeva..prendeva…, capivo che c’era qualcosa: arte, musica…
D: Fra le centinaia di ospiti che hai avuto in trasmissione citamene tre che ti hanno davvero colpito, positivamente o anche negativamente.
R: In realtà non me li ricordo e farei un’ingiustizia a rispondere. Perché è un mio problema: io me li scordo, non è che me li scordo del tutto, però, vedi, io riesco a lavorare solo cancellando, come i software, resettando la memoria, se no divento matto. E’ un problema, perché è come se non riuscissi ad accumulare tutte le cose…Allora a questa domanda io non posso risponderti: guarda, io ho incontrato questa persona straordinaria che mi ha cambiato, che mi ha colpito particolarmente. Perché, come per i libri, non è l’incontro con una sola persona che ti cambia, ma ti cambiano a poco a poco, ti arricchiscono a poco a poco i quattro, i sei, gli otto ospiti che noi abbiamo ogni giorno in trasmissione… io penso che sia questa la cultura, che sia qualcosa che ti cambia giorno per giorno, soprattutto adesso, che non è che abbiamo un solo problema, davanti, ma abbiamo una serie di problemi, e non è che abbiamo una soluzione, proprio perché tutto è diventato così complesso. Non c’è la risposta illuminante, non siamo, credo, in un’epoca in cui dagli intellettuali dobbiamo aspettarci il click che ti accende la luce. I grandi temi, il rapporto con l’altro, il rapporto uomo-donna, il rapporto fra realtà e immaginazione sono tutti temi sui quali i contributi operano lievi spostamenti. Forse solo dopo un po’ di tempo tu puoi vedere il cammino che hai fatto. Faccio fatica oggi a vedere grandi traghettatori : io oggi vedo gli intellettuali come dei pazienti apritori di porte, dei costruttori di piccoli ponti. Non ci sono più le grandi sistemazioni, perché sarebbe difficile tenere in piedi la grande complessità e sarebbe difficile intravedere qual è lo snodo fondamentale. Adesso c’è una bella collana della Newton Compton che raccoglie le storie dei libri, le biografie dei libri: cioè la biografia non di Darwin, ma dell’Origine della specie, non di Maometto, ma del Corano, non di Marx, ma del Capitale: tu vedi che questi grandi libri nascono in epoche e da personalità che si pongono una domanda e su quella lavorano e tutti i dati che Darwin o Marx raccolsero in campi diversi, li concentrano intorno a un nodo. Oggi tutto questo mi sembra diventato impossibile. E per riprendere le categorie di Salvemini che diceva che gli intellettuali sono o aquile o passerotti: o aquile, che da lontano, dall’alto, vedono il mondo sintetico o passerotti…ecco, a me sembra che ci sia più bisogno di passerotti, oggi, e che comunque sia impossibile essere aquile rispetto al mondo che abbiamo.
D: Dopo questa tua risposta così profonda, mi vergogno un po’ a passare alla prossima, comunque eccola: se la tv ti offrisse di condurre un programma in prima serata, di sabato, aggiungo, e con la presenza pure di Fiorello, ma con la condizione di non fare più, ma proprio più, radio: accetteresti?
R: Non accetterei. Non voglio fare la televisione. Attualmente non ne sento attrazione.
D: Ho iniziato con il chiederti del tuo sogno da bambino. Vorrei concludere domandando che sogno ha Marino Sinibaldi, ora che è cresciuto.
R: Di non invecchiare male.
Grazie, Marino, per la tua disponibilità. Sei stato davvero gentilissimo.
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E allora… ecco a voi:
Ragazzo triste
Il ruolo dell’intervistatore è di quelli che sembrano facilissimi finchè non ci si mette direttamente e materialmente alla prova. “E cosa ci vorrà a fare quattro domande? Se poi hai il registratore non hai neanche il problema di annotarle, che se intervisti Sgarbi devi andare di stenografia, che è l’unica cosa che richiede un minimo d’impegno.
In realtà, non è così. Alcuni sedicenti intervistatori (specie quelli che gravitano nell’ambito del calcio e del ciclismo) sono talmente innamorati di se stessi che non fanno domande, fanno poemi in prosa per manifestare la propria proterva competenza tecnica, talvolta si domandano e rispondono da soli, se la suonano e se la cantano, se la cucinano se la mangiano e se la defecano: spesso l’intervistato, se è beneducato e di buon umore, inizia la risposta con un larvatamente polemico “Hai già detto tutto tu…”.
Altri fanno delle affermazioni travestite da domande, tattica sleale ma assolutamente ammessa se la applica un principe del Foro che controinterroga un teste furbetto che ovviamente risponderà, quasi sempre con un leggero accento siciliano “Lei mi sta mettendo le parole in bocca”.
Altri ancora fanno domande troppo banali, o troppo arzigogolate, nell’un caso e nell’alttro, per la serie “Gli opposti a volte si toccano, ma non raggiungono l’orgasmo”, ottenendo risposte con contenuto informativo sottozero.
Il sublime paradosso di una buona intervista (quale la tua mi sembra a tutti gli effetti essere) è che per raggiungere quell’apparente semplicità del domandare c’è tutto un lavoro dietro che però (questo ogni artista lo sa) non deve trasparire.
Ultimo punto: è normale prepararsi una scaletta ma delle volte è anche normale buttarla via. Ricordo una dichiarazione di Pippo Baudo, che come intervistatore ci sa decisamente fare specie nella sua maturità artistica di questi ultimi anni, quando non si cimenta più con ruoli da imbonitore (nei quali era ancora più bravo) ma può sfoggiare la sua più che decorosa cultura: “Se la prima domanda è ‘Qual è il suo rimorso più grande?’ e la risposta è “Aver ucciso mia madre col cianuro”, la seconda non può essere “Ci parli del suo nuovo romanzo”.
Un vigoroso abbraccio e canonico bacio.
Radiografie di intervistatori… Molto interessanti. Penso però che la buona riuscita di un intervista dipenda anche dalla capacità dell’intervistato di mettere a proprio agio chi gli pone domande. E Marino Sinibaldi (sia come intervistato, che come intervistatore) possiede questa dote.
Ricambio l’abbraccio e il canonico bacio.