La foto è sciupata dal tempo… Io sono quella con le treccine, su in alto. Forse in quarta elementare. La punta di quelle treccine andava sempre a finire dentro il calamaio del mio compagno che stava dietro al mio banco… Calamaio peno d’inchiostro, ovviamente.
Poco fa, mentre cazzeggiavo su facebook (dovrei utilizzare meglio il mio tempo, a dire il vero) ho letto un post di Caterpillar, in cui si ricorda che un tempo il primo ottobre, uniformemente su tutto lo Stivale, iniziavano le scuole. Ho pensato, allora, di andare a ripescare un post di qualche anno fa. E voila, eccolo qua.
È il primo ottobre, oggi. E come accade ogni anno mi viene in mente che un tempo (fino al 1976, mi sembra) il 1’ ottobre era il giorno di inizio dell’anno scolastico.
1’ ottobre: San Remigio. Ecco perché i bimbi di prima elementare, forse solo in Lombardia, credo, venivano detti remigini.
Io fui una remigina nel lontano ottobre del 1952. “Fui”… che strano effetto che mi fa utilizzare questo tempo del verbo essere… Come una lapide, una lapide mortuaria, mi sembra. Ma tant’è: io fui una remigina tanto, tanto tempo fa.
La mia prima scuola fu, no, meglio, era, una vecchia caserma dai muri rossi, parzialmente diroccata e senza dubbio instabile. Quando c’era maltempo, un vento sostenuto, o piogge abbondanti, o neve, ci facevano stare a casa, per paura di un crollo. In quell’edificio ho trascorso il primo anno delle elementari, in un aula dove una vecchia stufa Becchi non riusciva a tenere fuori il gelo dell’inverno, e dovevamo fare lezione con i cappotti addosso. La maestra no, lei non ricordo mettesse il cappotto. Aveva un grembiule nero, di satin lucido, che si stringeva sul petto abbondante. Si chiamava Bugo, Carmen Bugo. Non era giovane, infatti stemmo con lei fino alla quarta, poi in quinta ci fu una difficile convivenza con il maestro Giunta, cattivissimo, che sbatteva una contro l’altra le teste dei maschi, e a noi femmine riservava insulti sarcastici e dispetti vari.
Il mio primo giorno di scuola fu penoso, mi sembra di ricordare. Non avevo frequentato la scuola materna e non sapevo fare niente, se non inventarmi storie e fantasticare. La maestra ci disse di tirar fuori dalla cartella il quaderno a quadretti e la matita e di fare dei puntini nell’angolo di ogni quadretto. Semplice, vero? Eppure per me fu un’impresa ardua, molto ardua: i puntini non ne volevano sapere di starsene nel posto giusto, e si spostavano al centro del quadretto, o di lato. Alla fine la pagina era più simile a quelle tavole della Settimana Enigmistica, dove si invita il lettore a congiungere i puntini per formare un’immagine… Non credo che mia mamma sia stata molto contenta, quando le mostrai (certo non orgogliosamente) la mia prima fatica letteraria scritta, (se così si può chiamare).
Poi le cose cambiarono rapidamente. Insomma, per tutte le elementari, alla fine dell’anno scolastico, saltava fuori che avevo meritato il primo premio, e me ne tornavo a casa con una medaglia in simil oro e un diplomuccio che asseriva che io… bla bla bla.
Abitudine, questa dei premi, per fortuna in disuso, oggi, nella scuola: se ci penso ora credo che fosse un’abitudine odiosa e non pedagogicamente corretta.
In seconda avemmo una scuola nuova di zecca. Un edificio tutto bianco, pulito, solido. Che non temeva le intemperie, e i cappotti rimanevano per le quattro ore di lezione appesi agli attaccapanni.
A scuola, fin dalla prima, ci andavo a piedi: era nella stessa strada di casa mia, in via Canonica, alla Croce di Casalecchio. Il traffico su quella strada era scarso, e poi, giustamente, i genitori di allora non erano super protettivi come quelli di oggi, che al figlio non gli lasciano fare, a piedi, neppure un passettino.
C’è una canzone del 1955, del Quartetto Cetra, intitolata Il primo giorno di scuola: speravo di trovarla in you tube, ma non c’è. Ho in mente solo, a parte la musica che ricordo bene, le prime parole, che dicevano così: Il primo giorno di scuola, ti mancherà la parola…
E forse fu proprio così, il primo giorno di scuola mi mancò la parola: non fui capace di ordinare a quei puntini indisciplinati di andare al loro posto.
E se foste voi a raccontarmi del vostro primo giorno di scuola? I bravi narratori, fra i miei ormai pochissimi commentatori (considerazione che scrivo ora, 1’ ottobre 2012), non mancano…
Su su, animo! Raccontatemi, che sono curiosa.
Va beh, ora me ne vado a dormire. Chissà se sognerò di essere tornata una remigina…
L’unica cosa che ricordo è quell’ingombrante fiocco azzurro inamidato.. 🙂
Antonio! Che piacere risentirti! Io non è che ti abbia dimenticato, solo che navigo poco, fra i blog, ultimamente.
Immagino come fosse fastidioso il fiocco, se è l’unica cosa che ricordi. Almeno a me era risparmiato l’amido.
Ti ringrazio anche per avermi segnato nel tuo blog. Ho tentato di lasciare un commento, ma non ci sono riuscita. Devo aver fatto casino, tanto per cambiare, con l’account. Ti avevo scritto un ringraziamento e un apprezzamento per la musica.
Ciao, ReAnto! E buon ottobre!
Scusa se ti rispondo come replica, ma altrimenti il mio commento non viene pubblicato.
Quando, per puro divertimento e quasi vergognandomi (come quando passavo le nottate cercando di invadere la Russia con l’esercito belga in accese partite a Civilization col mio compianto notebook) buttai giù qualche traccia di una possibile biografia, un episodio saliente era stato il primissimo giorno di scuola, col pittoresco vissuto che esso mi aveva lasciato.
Mi sentivo Pinocchio nel ventre della balena bianca (avevo fuso, con la capacità tutta infantile di fare delle inopinate alchimie associative, le due storie che mi avevano fin lì più affascinato). Mi muovevo piano, con circospezione, rendendomi conto che “mi avevano iscritto a un gioco grande” (come avrebbe detto il Pinocchio di Edoardo Bennato) e che avevo fretta di capire che gioco fosse, e altrettanta fretta di capire se il ventre della balena mi avrebbe immondamente digerito e poi defecato come materia indifferenziata nel mare dei grandi senza alcuna pietà, o se viceversa sarebbe stato uno spazio accogliente in cui passare la ventina d’anni successivi.
E’ poi andata nella seconda maniera. Se fosse andata nella prima sarei molto più ricco ma molto meno felice.
Chissà che metafore useranno nel 2062 i seienni di oggi per rievocare i loro esordi scolastici…
Non conosco Civilization, però, ho passato intere notti a cercare di invadere la Kamciakta, in estenuanti ma appassionanti partite a Risiko, con marito e amici. Ma nel frattempo non scrissi nessuna biografia. Forse non sapevo bene, allora, chi io fossi.
La cosa che subito mi colpisce, iniziando a leggere il tuo ricordo scolastico, è la tua straordinaria precocità di lettore: prima dei sei anni già avevi letto (o ti avevano letto) Collodi e Melville? Va beh che mia mamma mi recitava Dante, per addormentarmi (e forse questo ha influenzato buona parte della mia vita: sai, “per me si va nella città dolente” e altri musicali versi non potevano non lasciare segno), ma credevo, prima di leggere la tua testimonianza, di essere stata io una bambina… a parte.
Che sia andata “nella seconda maniera” non ho dubbi. La tua vorace fame di conoscenza, che mi pare di aver imparato a conoscere, non poteva che portarti su quella strada. Non è detto, poi, che se fosse andata nell’altra maniera, tu saresti stato più ricco. Mi piace, però, che tu scriva che saresti stato meno felice.
Nel 2062, i seienni di oggi ci saranno ancora? Se andiamo avanti così, distruggendo il pianeta, qualche dubbio mi viene.
Buona vita, Luca! Che tanto la vita è tutta una scuola.
1° ottobre 1963: mio primo giorno di scuola. Anch’io sono un po’ attempata…
Il ricordo è ancora oggi nitido ed è quello di una bambina molti timida e insicura che pianse i primi giorni perchè si sentiva a disagio e inadeguata.
E che ci avrebbe messo decenni per capire che la timidezza è una grande qualità, assolutamente da rivalutare.
Le classi erano parallele, rigorosamente divise tra maschi e femmine.
E la nostra maestra optò per dei pon pon blu al posto del fiocco: un’innovazione incredibile!
Scusa se l’ho buttata un po’ sul patetico, ma è proprio così che andò.
Pian piano poi negli anni le cose migliorarono a livello di autostima.
Mi piace che tu consideri la timidezza una grande qualità, Rita, e non mi sembra affatto che il tuo commento sia patetico, anche se emotivamente coinvolgente. Mi ha fatto ridere la… grande innovazione dei pon pon!
Grazie del commento e a presto.
Del primo giorno di scuola ricordo soltanto che mi accompagnò la zia Bruna e che poi restammo per molto tempo in un lungo corridoio ostile, affollato di bambini e mamme, in attesa di venire assegnati ciascuno alla propria classe
Nei giorni seguenti provai un’angoscia totale e un disagio insopportabile: come se mi avessero cacciato in galera. Crisi abbandonica? Se così è stato, forse ha avuto origine dal fatto che, all’età di quattordici mesi, mi allontanarono dalla mamma e da casa per facilitare lo svezzamento. Che a quei tempi – e mica come oggi che anche cani e gatti hanno il loro psicologo – l’allevamento dei figli funzionava più o meno così: bisognava dargli da mangiare, coprirli quand’ era freddo, insegnargli l’educazione ai bambini, che questi erano i doveri di ogni buon genitore, ma per tutto il resto poche sciocchezze, ciance o ziricucchini.
Per fortuna il mio grave disagio dei primi giorni a scuola si attenuò poco a poco, e scomparì del tutto, salvo ripresentarsi in seguito, e fino all’età adulta, tutte le volte che mi trovai ad affrontare da sola qualche importante cambiamento di luogo. Chissà se il nostro esperto Luca scoprirà qui i sintomi di una irreversibile, incurabile patologia psicotica!
In prima elementare feci amicizia con la mia compagna di banco, figlia di contadini, e io e mia mamma delle volte andavamo a casa loro. Forse anche per cercare qualche cosa da mangiare, che c’era la guerra e una carestia bellica da far paura. Per accorciare la strada attraversavamo i binari della ferrovia e, subità al di là, in un grande prato mia madre raccoglieva il radicchio selvatico.
Ci speravo proprio, Mirellina, che lasciassi il tuo contributo, perché so come riesci a raccontare bene, con leggerezza e ironia, i tuoi ricordi di infanzia (il romanzo che stai scrivendo ne è prova). E infatti anche questa tua testimonianza fa sorridere, ma al tempo stesso fa riflettere: sull’educazione che si dava a quei tempi, senza troppi “ziricucchini” (era meglio allora? era peggio?: meriterebbero un post anche queste domande), sulla “carestia bellica”, che senza dubbio i ragazzini di oggi non riescono neppure a immaginarsi, abituati come sono ad avere sulla tavola ogni schifezza proposta dagli spot pubblicitari in TV. Molto bella l’immagine del grande prato e della tua mamma che raccoglieva il radicchio selvatico.
Grazie.
Visto che tutti ne parlano vi racconto il mio: Andai a scuola in cosa alla fila delle bambine delle suore, perché i miei lavoravano. Entrai in un grande stanzone della scuola pubblica con il cuore a pezzi, anche se le suore le conoscevo, avevo fatto l’asilo da loro, ci chiamarono e ci misero in fila. La mia maestra si chiamava Gemma e da subito l’ho trovata antipatica e nei cinque anni seguenti ho avuto più che ragione. In fila, grembiule bianco e fiocco rosa siamo sfilate, tutte femmine, davanti alla Direttrice girando il viso verso di lei, in silenzio, modello fascismo, per dire.
avevamo i banchi di legno e i calamai che il bidello ogni mattina riempiva di inchiostro nero , che finiva sui grembiuli della compagna davanti. All’uscita ho sperato che ci fossero i miei, ma mi aspettava la solita fila delle suorine. Cinque anni per ultima, alla fine mi sono ribellata e ho ottenuto il permesso di attraversare la via Emilia Levante da sola. La prima e vera conquista di indipendenza. Riri52
Ecco, RiRi, nonostante il colore rosa del fiocco, mentre ti leggevo, mi sembrava di veder scorrere le immagini di un “corto” in bianco e nero. Con un linguaggio scarno hai raccontato con efficacia la tua esperienza di remigina e, senza essere patetica, ci hai trasmesso il tuo disagio.
Mi sembra poi di avvertire il battito precipitoso del tuo cuore, mentre attraversi la via Emilia. E anche la tua esaltazione per quel senso di libertà che l’attraversamento della Via Emilia. (il superamento del primo fra i tanti ostacoli che la vita dissemina sui nostri percorsi).
Ciao!
Io ho un ricordo sereno del mio primo giorno di scuola. Ero emozionata con il mio grembiulino dal grande fiocco rosa. Forse perché ho iniziato in un piccolo paese di montagna e si conosceva già la “signora” maestra è ed é stato naturale. Il vero trauma fu in quarta elementare quando cambiammo casa, paese e scuola. A Casalecchio di Reno il maestro mi trattava come una “scesa dai monti” stupida ed ignorante.
Ho un caro ricordo dei banchi neri inclinati, delle boccette d’inchiostro, dei pennini e dei buchi che venivano nei quaderni quando si dovevano cancellare gli errori con le gomme rotonde.
Forse è stato un errore eliminare il momento comune dell’inizio di un’avventura, dell’inizio dell’avventura della vita.
Il potersi riconoscere tutti come Remigini.
Ciao, Silvana! Grazie per la tua testimonianza. Non sapevo che anche tu avessi vissuto a Casalecchio. Anche se sei tanto più giovane di me, non è che il mio maestro sia stato anche il tuo? Si chiamava Giunta ed era davvero pestilenziale… 🙂
I buchi nei quaderni erano il mio terrore… per fortuna non mi è mai capitato di farne. Sì, era bello iniziare la scuola tutti insieme, tutti remigini nello stesso giorno.
Buon ottobre, Silvana!
Non avevo frequentato l’asilo e, dunque, il primo giorno di scuola fu (devo usare anch’io questo tempo del verbo essere!) una grande sofferenza. Ricordo che piangevo sempre perché non volevo distaccarmi da mia madre (dovevo essere proprio una bambina antipatica) e nei giorni seguenti cominciai ad avere anche il vomito. La maestra, Erminia Fossi Pianigiani, che ricordo con grande dolcezza, autorizzò mia madre a farmi entrare più tardi, come se questa piccola proroga sull’orario d’ingresso avesse fugato i miei timori e le mie paure. Poi, comunque, col passare dei giorni, a poco a poco, m’innamorai di quella scuola (anche se erano baracche di legno!), dell’insegnante e delle compagne (la classe era tutta al femminile). Avevamo i grembiulini bianchi con un grande fiocco inamidato rosa al colletto ed anche le mie treccine finivano con due fiocchetti. L’usanza dei premi esisteva anche nella mia classe, ma praticamente le tre premiate erano sempre le stesse bambine, Marzia, Margherita e Mara (le tre M). Marzia fungeva anche da capoclasse quando l’insegnante si assentava ed io e Margherita eravamo le sue collaboratrici anche se non ricordo di aver avuto mai nessun incarico al riguardo. Avevamo, come segno di riconoscimento, un nastrino di colore bianco, rosso e verde, come la bandiera italiana, legato al braccio con una medaglietta inserita nel fiocco. Non ricordo se la piccola medaglia fosse un’immagine sacra o quant’altro. Devo dire che anziché essere orgogliosa di questo nastrino tricolore e di questa “onorificenza” io mi sentivo sempre impacciata e non ne capivo il senso, anzi mi disturbava e provavo un senso di disagio nei confronti delle altre compagne. Portavamo in cartella (allora non usavano gli zaini per andare a scuola) un bicchiere di plastica, il mio lo ricordo benissimo, era rosa ma, soprattutto, ricordo l’odore della plastica che un po’ mi disgustava, dove ogni mattina ci veniva servito del latte caldo. Ricordo che, sporadicamente, ci veniva anche dato un bel cucchiaio di olio di fegato di merluzzo!
Un giorno la Maestra ci disse che l’indomani avremmo dovuto portare a scuola un “vocabolario”, un libro che non doveva mancare in nessuna famiglia! Io capii subito che in casa mia non avrei trovato quel libro, la mia famiglia era molto umile e povera. Infatti, il vocabolario non c’era. La mattina seguente molte compagne arrivarono a scuola con questo enorme volume ma io no! Mia madre, forse, per acquistarlo aspettò lo stipendio di mio padre e quando poi, finalmente, anch’io ebbi il mio vocabolario mi dovetti accontentare di un piccolo librettino tascabile dalla copertina rossa. Forse, fu proprio in quell’occasione, che giurai a me stessa che i libri sarebbero diventati come il “pane” per me e non sarebbero mai mancati nella mia casa.
L’insegnante era una persona dolce e amorevole ed anche quando diventava severa riusciva a trasmettere il suo affetto. Ebbe un gesto di grande generosità verso la mia famiglia: mio padre, invalido di guerra, doveva partecipare ad un concorso ma non aveva il titolo di studio richiesto. Ricordo che la mia maestra veniva a casa nostra a fare lezione al babbo in modo da prepararlo come privatista e sicuramente lo aiutò molto. Mio padre prese la licenza, partecipò al concorso e fu assunto per quell’impiego che aveva tanto desiderato perché era “un posto sicuro” rispetto alla fabbrica dove lavorava.
Della mia insegnante delle elementari mi resta il rammarico di averla perduta quando ero piccola. Ancora, adesso, ripenso spesso a questa Maestra e mi dispiace di non aver avuto contatti con lei in età più adulta…. Avrei voluto dirle “grazie” di tante cose.
Perdonami, Mara carissima, se rispondo con vergognosissimo ritardo al tuo commento, ma, come avrai visto, ho ripreso da poco a occuparmi del blog. Il tuo è un racconto bellissimo, che contiene tante cose importanti: una vera e propria fotografia di quegli anni, scattata con grande amore. Grazie!
Era il 1951. Non avevo fraquentato l’asilo – la mia mamma, tenera casalinga, era contraria a mescolare gioco e scuola e diceva sempre finché possono solo giocare, lasciamo che i bambini giochino. Io non vedevo l’ora di andare a scuola, volevo imparare a leggere e scrivere, era una questione vitale. Per tutta l’estate avevo contrassegnato con una crocetta sul calendario ogni giorno che passava e che mi avvicinava alla realizzazione del mio desiderio… e intanto riempivo pagine di… finta scrittura, una specie di stenografia, quasi volessi esercitare la mano ad andare con scioltezza sul foglio. Arrivò il fatidico 1° ottobre, alla scuola elementare “2 ottobre” di Roma, a due passi da S. Pietro. Il mio grembiulino era nuovo, ovviamente, ma comunque lavato e inamidato da mia madre, che per queste cose era una perfezionista, e quasi accecava con il suo candore (una punta di polvere di indaco nel penultimo risciacquo – a mano, naturalmente – l’avevo reso così bianco che più bianco non si può…) e dal colletto usciva il fiocco blu, anche lui terribilmente inamidato, rigido come non si sa che… Per mano con mamma, tenendo nell’altra mano un mazzo di fiori da dare alla maestra, mi avviai tronfia e soddisfatta verso la scuola. Entrammo e ci indirizzarono alla palestra dell’istituto dove ci aspettavano diverse maestre che consultavano un foglietto con i nomi dei bambini da assegnare alle diverse classi. Ero quasi al centro di quell’enorme ambiente, circondato da bambini vocianti, quando la mia mano passò dalla stretta di mamma a quella, devo dire gentile, della ‘mia’ maestra… un breve saluto e mamma se ne andò, Mi girai a guardarla mentre attraversava la palestra, volgendomi le spalle…. e scoppiai in un pianto disperato…
Era la prima volta che mi separavo da lei, per motivi diversi dall’andare a giocare sotto casa con mio fratello, e sapevo che non si sarebbe affacciata ad alcun balcone se l’avessi chiamata…
Mi scuso anche con te, per il ritardo con cui rispondo al tuo commento, cara lallaerre… Mi ha fatto sorridere, quello che hai scritto. Sei riuscita a descriverti così bene, che mi sembra di essere arata lì accanto a te, quel fatidico giorno. Bravissima!
Buon 2015, lallaerre, e se torni a trovarmi mi farà molto piacere.