Ogni tanto pensava che se ne sarebbe andata lontano, pensava che sarebbe venuto un giorno in cui avrebbe chiuso le finestre della sua casa, e poi la porta, e che avrebbe sceso le scale lentamente, con la valigia che avrebbe creato un suono sordo, sbattendo contro ogni gradino, e che poi avrebbe buttato le chiavi dell’appartamento nel primo cassonetto dell’immondizia. Pensava che non avrebbe lasciato nessun biglietto, né fatta nessuna telefonata, né avrebbe scritto nessun messaggio sul social network cui era iscritta da tempo.
Ogni tanto pensava che le sarebbe piaciuto arrivare in un luogo di silenzio, dove avrebbe potuto ascoltare il rumore del crescere dell’erba. Quella frase, quella del rumore dell’erba che cresce, l’aveva letta in uno dei tanti libri che le avevano rovinato la vita, non si ricordava quale.
Ogni tanto pensava che aveva letto troppo, e che aveva vissuto troppo poco.
Quando me ne andrò, pensava ogni tanto, lascerò qui la mia ombra. E allora se la immaginava, la sua ombra, rimasta sola, e orfana, ma inconsapevole dell’abbandono, compiere tutti i gesti di alienante e ripetitiva quotidianità, gli stessi che lei, anche in quel momento, stava compiendo.
Ogni tanto pensava che avrebbe potuto essere tutto diverso.
A volte si diceva che avrebbe dovuto essere tutto diverso.
Ogni tanto pensava che esistevano altri modi, per andarsene. Ma poi le venivano in mente partenze simili, fatte da altri, e che le avevano lasciato ferite, dentro, che non si sarebbero mai rimarginate. E lei non voleva ferire nessuno.
Ogni tanto pensava alla bellezza, o alla felicità, o all’armonia.
Ogni tanto si sentiva come la vittima di una rapina, a cui fossero state sottratte tutte le ricchezze.
Ogni tanto si sentiva come un giocatore d’azzardo che avesse sperperato in un gioco perverso l’intero capitale.
Quando me ne andrò, pensava ogni tanto, camminerò a ritroso, con lo sguardo fisso a terra, per recuperare le cose perdute.
Pensava, ogni tanto, a lagune coralline, con pesci colorati che danzavano nell’acqua trasparente.
Ogni tanto pensava a vette di montagne, e al volo solitario di un’aquila. Le sarebbe piaciuto poter essere un pesce, o un’aquila.
Ogni giorno pensava che era sempre più stanca.
Ogni notte sognava il rumore dell’erba, che cresceva in una prateria.
Ogni mattino si svegliava con il desiderio di negare il giorno.
Buongiorno carissima.
Se la tristezza di cui scrivi è un poco anche la tua, bisogna dire che sei davvero brava a sublimare uno stato d’animo negativo in un atto creativo, in un racconto tanto bello.
Resta, rimani con noi, nella tua vita, non buttarci via, non andare via, e dove poi? che l’erba che cresce non fa nessun rumore, io ne sono certa.
In ogni caso non cresce adesso l’erba, ma in primavera quando il nuovo sole avrà spazzato via la tristezza.
Bisogna tener botta tutto l’inverno, anche se a volta è dura, lo dice anche il vecchio motto: Campa cavallo che l’erba cresce!
Un abbraccione.
Cara Mirella, la tristezza della “donna che pensa” è un po’ (UN PO’!) anche la mia, ma solo un poco, appunto. Cerco sempre di non lasciarmi vincere dalla negatività, e forse, scrivendone, è un modo per esorcizzarla, un’arma per combatterla. Il desiderio di andarmene ogni tanto si affaccia, soprattutto in queste grigie giornate novembrine. Ma è più che altro la fame di luce, di calore, che lo fa nascere. Poi penso che è qui che ho gli affetti più cari, e allora, se voglio, luce e calore posso averli senza dovermi spostare.
Però… sai, credo che posti dove si possa ascoltare il crescere dell’erba esistano.
Ricambio l’abbraccione, e grazie.
Anche l’infelicità può essere preziosa: la maggior parte degli artisti, piccoli o grandi che si considerino, fanno fatica a vivere in un mondo sempre più fatuo e volgare, un mondo storicamente già imploso sotto il peso delle sue mille contraddizioni ma che, avendo sempre meno da dire, lo dice a voce sempre più alta.
Ma gli artisti hanno il magico dono di sapere, potere, volere trasfigurare il proprio malessere nella dimensione dell’estetica, dove il dolore non fa più nessun male, diventa il sacro fuoco creativo che rivela quel tanto di mistico, trascendente, oserei dire divino, che ognuno ha dentro se solo non si vergogna e non ha paura di cercarlo.
Nel mondo pragmatico e concreto della quotidianità avranno sempre l’impressione di remare controcorrente: e pur tuttavia continueranno a remare perché non accetteranno mai di andare alla deriva dove una corrente ottusa e ignorante cerca di trascinarci.
Nel mondo parallelo della creatività, viceversa, le loro remate pescano un acqua docile e ferma che li trasborda dove loro sanno andare, e dove sanno portare chi gode dei prodotti del loro ingegno.
In questa confidenza sotto mentite spoglie di racconto la Milvia c’è tutta, ed è una presenza quasi abbagliante dove sembra non ci sia più nulla da aggiungere o da togliere.
Ci sono e non ci sono, caro amico Luca… Ora sì, e ora no, con un andamento ciclotimico, spero più letterario che patologico.
Le braccia, a furia di remare, sono piuttosto indolenzite. Ma i muscoli si rafforzano, e si va avanti.
Grazie, Luca, per esserci sempre.
http://www.youtube.com/watch?v=GJIpxQgZypc La banda Mina
Non potevi scegliere una musica migliore, Rita! Ascoltarla, da sempre, mi riempie di allegria. Grazie!
Molto bello Milvia, una frase fra tutte: “Quando me ne andrò, pensava ogni tanto, camminerò a ritroso, con lo sguardo fisso a terra, per recuperare le cose perdute.”
Credo, Maria cara, che se ognuno di noi potesse ripercorre all’indietro la strada fin’ora fatta, dovrebbe munirsi, prima della partenza, di un grande sacco, perché le cose perdute sono tante, per tutti. E del loro valore ci accorgiamo sempre troppo tardi.
Un abbraccio.
siamo alberi che camminano,
possiamo andare ovunque ma non portarci dietro le radici,
quelle non le smuove nessuno.
TADS
E se tentiamo un trapianto, può accadere che la stagione sia sbagliata, e l’albero, con le sue radici strappate alla terra, muore.
Grazie, Tads, di questa sorta di massima.