Io, da bambina

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Io, da bambina, prima di addormentarmi, parlavo sempre con il mio Angelo Custode. Non è che gli parlassi per chiedergli perdono di qualche monelleria che avevo fatto durante il giorno, non solo, almeno. Gli parlavo del più e del  meno, chessò, del film che avevo visto quella sera, o di come si era pettinata la maestra quel giorno. Forse gli chiedevo anche dei favori, tipo: per piacere puoi guardare sotto il letto che non ci sia un mostro?

Insomma, era come se dividessi la mia cameretta con il fratello maggiore che non avevo. Ero, e sono rimasta,  figlia unica, infatti. Chissà quando ho smesso? Vorrei ricordarmela quell’ultima sera che gli ho detto: buona notte, Angelo Custode. Chissà di che cosa gli ho parlato, quell’ultima sera? E chissà perché, poi,  dalla sera successiva, non gli  ho più parlato? Bisognerebbe sempre ricordarsela,  “l’ultima volta”.

Io, da bambina, avrò avuto sugli otto anni mi ero innamorata di Mike Bongiorno. Il martedì sera, mi sembra proprio che fosse il martedì,  c’era una trasmissione radiofonica  che si chiamava “Il motivo in maschera” e la presentava proprio lui, Mike Bongiorno.

E allora io cercavo di mangiare in fretta in fretta, poi andavo in bagno a spazzolarmi i capelli, e dopo mi sedevo vicino alla radio e facevo finta che lui mi dedicasse la trasmissione, e che non vedesse l’ora di finirla per tornare a casa da me. Avevo rimediato anche una sua foto, non ricordo chi me l’aveva data, di quelle che vendevano nelle cartolerie, mi sembra, e la mettevo sotto il cuscino, prima di addormentarmi, poi al mattino la toglievo e la mettevo in mezzo a un libro. Poi è successo che l’ho detto a una mia amica e lei lo ha detto ai suoi genitori e i suoi genitori lo hanno detto ai miei. E io mi sono vergognata da morire. Fine di un grande amore.

Io, da bambina, una volta, sarà stato inverno, perché i vetri delle finestre erano chiusi, mentre me ne stavo a guardare fuori, improvvisamente sul vetro ho visto una specie di omino, piccolo piccolo, una specie di gnometto carino carino. Allora ho quasi smesso di respirare e ho pensato, ed era un pensiero bellissimo: allora esistono!

Poi mi sono accorta che non era altro che uno dei pupazzetti stampati sulla stoffa del mio vestitino che si rifletteva sul vetro. Questa cosa qui non l’ho mai raccontata a nessuno. Ma la delusione me la ricordo ancora. Però mi ricordo anche la fantastica sensazione di quando ho pensato: allora gli gnomi esistono!

Io, da adulta, a volte ritorno bambina. E sogno, come sognano i bambini.

22696_451072328269185_1944730258_nEbbene, sì,  lo confesso: questo post è riciclato. L’avevo scritto il 13 luglio 2009, e  lo concludevo chiedendo ai miei commentatori (abbastanza numerosi, allora), di raccontare… loro, da bambini. Invito che rinnovo oggi ai tre commentatori che mi sono rimasti. Dai, raccontatemi!

We are the world, we are the children

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28 risposte a Io, da bambina

  1. Mirella ha detto:

    Milvia, hai lanciato una sfida non da poco. Scrivi sulla tua infanzia e e ci inviti a fare altrettanto, ma sai che noi non riusciremo a scrivere un testo altrettanto poeticamente vero. O meglio, quasi tutti noi, perché i tuoi bravi commentatori Luca e Franz, potrebbero anche .farcela.
    Quanto a me, lascia che ci pensi che adesso non sono ancora del tutto sveglia, e poi ci proverò.
    Buona giornata.
    Mirella

  2. lucarinaldoni ha detto:

    Allora bisogna andare in diretta con il preconscio, quel magmatico ribollire che sta un palmo sotto la coscienza e ogni tanto ti verrebbe voglia di scendere le scale, suonare il campanello e chiedergli “Ma non potete proprio fare a meno di fare tutto ‘sto casino che di sopra abbiamo cose serie a cui pensare?”.

    A parte che io un po’ bambino lo sono ancora, magari chi guarda il fenomeno dall’esterno fa “Tsk! Tsk!” come Zio Paperone quando si rende conto che Paperino non combinerà niente nella vita, anzi al massimo finirà in una canzonetta di Renato Zero condannato e incarcerato per aver rubato a un bimbo i suoi popcorn dopo averlo minacciato con un pistola, sotto effetto di non meglio precisate sostanze stupefacenti.

    Ma del non aver ucciso il bambino, l’adolescente, il giovane professionista, il bravo e affettuoso padre di famiglia, il vagabondo per l’Italia alla ricerca di una impossibile quadratura del circolo e perfino l’attempato playboy stagione 2007-2008 e diversi altri Sè provvisori che mi albergano dentro non mi faccio un cruccio nè la considero una colpa o una patologia. Sono la somma e il prodotto di tutte queste cose, anche se per come sono messo vien da pensare più a una sottrazione o a una divisione, ma è solo un’impressione falsa e tendenziosa.

    Il bambino Luca sembrava felice, anche se molte foto (che oggi non sono più in mio possesso perché, come dice Vecchioni in un suo epocale splendido ottonario “Io poi le cose le perdo”, ma fanculo il possesso materiale, allora perché abbiamo una mente dove volendo non si perde nulla?) ce lo restituiscono con un faccino triste e pensieroso accanto a una mamma troppo sorridente, quasi pensasse la buona Lauretta “Il mio bambino è proprio come lo volevo io”.

    Di sicuro di fantasia ne aveva tanta e aveva un paio di fratelli immaginari, perché la posizione di figlio unico al centro dell’universo familiare sembrava comodissima (e sul piano dei privilegi e della disponibilità di beni materiali fruttava molto) ma era in realtà una rischiosa trappola.

    Altre foto ce lo restituiscono duenne, allo scadere degli anni ’50, con un giornalino il cui eroe era il coniglietto Tippete.

    Ma la foto più bella, che darebbe un braccio per avere ancora, è quella sulle spalle del babbo Tonino che ha già 40 anni ma ne dimostra al massimo 25 (e del resto se a 60 ne dimostrava 40 il conto torna) riboccante di brillantina Brylcrem o come diavolosi chiamava.

    Il primo vivido ricordo del bambino Luca è curioso e un po’ proletario, meriterebbe la penna di un bravo scrittore quale lui si illude di essere e caritatevoli amici di blog non fanno nulla per toglierlo dalla perniciosa illusione, ma qui facciamo bastare la sua.

    Asilo Montessori di Loreto, probabile datazione 1961.

    Primo pomeriggio, dopo aver fatto il tediosissimo gioco del silenzio i bambini dovrebbero dormire ma Luca ci ha questo spirto guerrier ch’entro gli rugge. Forse ha rubacchiato la merendina di qualche altro bambino già terrorizzato dalle regole in virtù di genitori meno tolleranti dei suoi. Sia come sia, è sgusciato fuori studiando con maliziosa protervia le mosse delle maestre, e rimira affascinato le lente pigre oziose scorribande dei maialini della vicina porcilaia.

    Nulla di più opposto potrebbe venire concepito, da una parte l’asilo nato dalle idee di Maria Montessori, chiaravallese come suo padre ma (epocale predestinazione) emiliana per parte di padre, il luogo in cui i bimbi del boom respirano aria di progresso e stimolazione (ma il bimbo Luca trova il tutto noioso e artefatto) e dall’altra parte l’Italia di un dopoguerra che non vuol saperne di concludersi, dove accanto al tempio dell’Educazione Infantile sorge uno spazio agrario ed agreste che partorirà ottimi salumi (il leggendario soave speziatissimo ciauscolo marchigiano che nulla ha da invidiare agli insaccati padani, ma anche quel sapido prosciutto della Val Musone che non assomiglia nè al Langhirano nè al San Daniele ma ricorda semmai il Jamon Serrano iberico che oggi Luca assapora rapito al Tapas Pub di Parma) e che Luca, che non riuscirà mai in tutta la sua vita ad aderire ai tristi rituali della vecchia piccola borghesia che ilvento non se la porterà mai via, proletariamente trova degno di ammirazione e precoci meditazioni sugli equilibri tra Natura e Cultura.

    Credo possa bastare.

    • Milvia ha detto:

      Fantastico, caleidoscopico Luca! Grazie del tuo bellissimo, articolato intervento, che rende inadeguata ogni risposta che io potrei dare. Dovrei prendere in considerazione riga per riga e scrivere, per ogni riga, almeno dieci di risposta. E ne verrebbe fuori quasi un romanzo.
      Ancora una volta, non mi hai delusa, caro Luca.

  3. Mirella ha detto:

    (Da un romanzo autobiografico d’infanzia che si chiamer: Che razza di mondo questo? O forse Come il cardo selvatico, oppure I bambini della Punta)

    Il nipote del calzolaio non gioca mai n con noi femmine n coi maschi. Sta sempre seduto su una seggiolina vicino al nonno che lavora al deschetto dietro la grata della finestra a pianterreno di fianco all’ uscio, sempre aperto per i clienti che vanno a rifare i tacchi o per farsi mettere dei cicchetti alle scarpe. Vittorio gioca con dei pezzetti di cuoio parlottando da solo. Delle volte gira verso di noi, che passiamo di gran carriera impegnate in qualche chiassosa gara di corsa, la sua faccia pallida e un po’ schiacciata che lo fa somigliare a un cinese.
    Abbiamo molto parlato tra noi di questo bambino che non gioca mai. Vittorio non somiglia niente a sua mamma, la bella figlia del calzolaio. Il babbo dicono sia in guerra, ma nemmeno le pi grandi ricordano di averlo mai visto. Cos finiamo con l’attribuirgli un padre cinese, di professione pirata, che torner a guerra finita con forzieri d’oro e pietre preziose, frutto di scorrerie nei mari d’oriente.
    Oggi pomeriggio faceva un gran caldo e giocavamo ad anellina sedute per terra sulla striscia in ombra delle Due Case. La polvere del marciapiede si attaccava alle nostre gambe sudate che poi mandavano un odore di gomma bruciata. Ci venuto in mente di invitare Vittorio.
    Lui, di l dalla strada era come al solito seduto vicino al deschetto del nonno ed era solo. Ci siamo affacciate all’uscio con larghi sorrisi amichevoli, anche se, in qualche caso, privi di uno o due denti davanti. Gli abbiamo mostrato la palla quasi nuova della Romana e la nostra collezione di sassolini per giocare ad anellina, cos rotondi, lisci, perfetti, che ci son volute settimane e settimane di ricerca di gruppo per metterli insieme. Ma ecco, che dal fondo scuro della cucina laboratorio, sbuca la figura alta e sbilenca del calzolaio che, venendo verso di noi, fa il gesto di scagliarci addosso una forma da scarpe e intanto urla:
    “Via, andate via!”
    E mentre scappiamo impaurite “Non fatevi pi vedere, brutte zingare!”
    A distanza di sicurezza, ci fermiamo a commentare, risentite e offese:
    “Ma cosa abbiam fatto di male? Noi volevamo solo esser gentili…”
    “E poi … zingare? A noi?”
    “E brutte??”
    “ poi bello lui. Hai visto che occhi da matto?”
    “Dovrebbero rinchiuderlo al Numero Novanta!”
    “Che ci importa a noialtre di quel suo nipote imbalsamato?” “Che gli farebbe solo bene giocare con delle ragazze sveglie come noi…”
    “…invece di star sempre attaccato al deschetto del nonno!”
    Per vendicare il torto subito, pensiamo subito a una filastrocca che dice cos Vittorio Emanuele che mangia le candele/ le mangia senza pane/ scoreggia come un cane.

    • Milvia ha detto:

      Mirellina, sai bene (sì, tu sai, perché te l’ho detto tante volte) come io consideri la tua scrittura un vero e proprio capitale: non solo per i ricordi che contiene, ma per come li esprimi, con una freschezza e una poeticità che va diritta al cuore. Anche in questo brano che ci regali, e che credo sia stato apprezzato da tutti i lettori. È un capitale che dovresti investire: il tuo romanzo- autobiografia (ma ben diverso dalle tante autobiografie che ci annoiano a morte) ha tutte le prerogative per essere pubblicato. E datti una mossa, quindi!!!

  4. Mirella ha detto:

    Guarda qui che razza di roba: Non ha riconosciuto le vocali accentate. Mi ha saltato anche un paio di righe alla fine. Se eventualmente ci fosse qualcuno che stoicamente l’avesse comunque letto, pur non essendo bolognese doc, preciso che:
    – i cicchetti sono le toppe nella suola delle scarpe, riparazioni che si usavano una volta. La parola significa inoltre severa ramanzina, ma anhe drink di superalcolici:
    – Il Numero Novanta era sinonimo di manicomio, che a Bologna aveva sede a tale numero della via Sant’Isaia.

  5. Franz ha detto:

    In attesa e nella speranza di poter rispondere alla tua sollecitazione con la cura che merita, non posso fare a meno di segnalarti una cosa.
    E cioè che puoi vantare un plagio da parte niente meno che del grande Francesco Guccini, che si è evidentemente ispirato al tuo brano, nel suo ultimo disco appena uscito, e nella relativa canzone più trasmessa dalle radio, che puoi ascoltare qui.
    😀

    • Milvia ha detto:

      Ma pensa un po’… Il nostro amato Francesco mi avrebbe dunque plagiato? Beh, ipotesi alquanto impossibile da verificare, anche perché non credo proprio che le cose siano andate così… Ma il tuo amabile riferimento scherzoso mi fa piacere, anche perché mi ha dato modo di ascoltare una canzone per me inedita, nella quale, sì, mi sono ritrovata (con conseguente lacrimuccia). Trovare pensieri comuni con Guccini mi è capitato ben più di una volta, anche quando ho letto il suo Croniche Epafaniche.
      Ciao, Franz!

  6. Franz ha detto:

    Sarà difficile stare all’altezza del tuo brano, così come delle pensose considerazioni di Luca (a cui, a proposito di Maria Montessori, consiglio questo libro, le cui pagine lette “ad alta voce” su Radio3, mi hanno molto emozionato) e della poetica e pur dettagliatissima pagina di Mirella, ma tuttavia ti ho promesso il mio piccolo contributo e allora ci provo anch’io, con un solo ricordo.
    Percepivo il mondo degli adulti come una coalizione compatta nel non prestare fede al mio punto di vista di bambino, diverso dal loro, e mi ripromettevo che, una volta adulto, io sarei stato diverso, non avrei tradito quel modo di vedere le cose, e dunque il bambino stesso. Chissà se sono riuscito a mantenere il difficilissimo patto? Perché, con tutta probabilità, aveva ragione lui…

    • Milvia ha detto:

      Il tuo ricordo, caro Franz, è ben più che all’altezza del mio brano. In poche righe dici tanto, descrivi lo smarrimento di te bambino davanti al mondo degli adulti, smarrimento (e conseguente senso di solitudine, credo) non disgiunto però da determinazione: quella di essere, da grande, diverso da loro, da quegli adulti con le loro leggi a te estranee. Eri un bambino… speciale 🙂 e credo di conoscerti abbastanza per poter dire che il patto è stato mantenuto, che non c’è stato tradimento, verso quel bambino. Perché sei diventato un adulto speciale, e quel bimbo, in te, vive ancora.
      Ricordo anch’io quell’Ad alta voce. E il consiglio che hai dato a Luca lo raccolgo anch’io.
      Buon pomeriggio, Franz!

  7. Riri52 ha detto:

    Un brano già pubblicato su Piumedifarfalla.

    Santa di Rita Zaghi

    La domenica attendevo il suono delle campane con ansia, già pronta, calzettoni di pizzo bianchi e scarpe lucide, e mi precipitavo per giungere in tempo fino al primo banco, ansiosa, quasi, di assistere alla cerimonia mentre restavo in adorazione delle statue e dell’altare per molto tempo, rubandolo ai giochi. Ma avevo deciso che dovevo diventare santa e per farlo dovevo pregare e restare in chiesa il più possibile.
    Volevo diventare santa e avere una statua in chiesa accanto a S Teresa del Bambin Gesù e Santa Rita da Cascia. Mi chiedevo come avrebbero risolto il problema del doppio nome, due sante Rita in una chiesa erano troppe.
    Restavo ore inginocchiata a rimirare le fattezze di gesso di S Teresa . Ogni volta mi chiedevo perché lasciavano la santa che dava il nome alla Parrocchia con la veste sbrecciata e non passavano una mano di vernice per coprire quella bruttura, che si era salvata dalla guerra, insieme alle altre.
    La chiesa era abbastanza recente, ricostruita dopo i bombardamenti e con pitture che fingevano marmi e stucchi, inesistenti nella realtà. 
IL soffitto a cassettoni era disegnato con gigli oro su fondo blu e quadrati arcobaleno che si rincorrevano senza soluzione di continuità con un effetto finale di luogo festoso e allegro.
    Lungo le pareti figure di santi sconosciuti si mostravano in atteggiamenti differenti porgendo ai fedeli chi un libro, chi gli occhi in mano, chi un cilicio sanguinante o frecce evidentemente tolte dal petto nudo e ferito. Li guardavo cercando un indizio sul loro nome, ma non riuscivo a sapere nulla, troppo timida per chiede al parroco o alla nonna. Alcune scritte in latino avrebbero risposto alle mie domande, se io avessi conosciuto il latino.
    Ero ancora piccola per studiare il latino, ma l’anno dopo avrei rimediato, potevo aspettare.
    L’abside a stento conteneva l’enorme altare, sproporzionato rispetto alle misure della chiesa. Le suore lo addobbavano solitamente fino al terzo ripiano con gladioli bianchi e foglie verdi. Nell’aria, specialmente al sabato pomeriggio il profumo dei fiori diventava intenso e rallegrava l’aria fredda, anche d’estate.
    .
    Mi piaceva anche l’odore dell’incenso che persisteva sospeso, e si mescolava al profumo dei fiori o a quello costoso di qualche signora inginocchiata accanto a me.

    Avevo cominciato in autunno, durante una serie di conferenze dei giovani missionari che dall’alto del pulpito raccontavano le imprese presso popoli affascinanti e misteriosi. Mi aveva colpito l’eroismo delle loro gesta, la forza che imprimevano ai racconti anche bruschi. L’apoteosi fu una sera, dopo il racconto del missionario che mi aveva portato a sognare i popoli dell’Africa privi di ogni cosa e ignari del catechismo, quando la chiesa affollattissima si riempì di canti in latino che vibravano nel cuore. Il calore umano e l’intenso afrore di incensi e profumi mi avevano portata quasi in estasi e cantavo con tutte le mie forze le parole in latino delle preghiere che da sempre ripetevo prima di dormire.
    Mi sembrava importante diventare utile per quelle persone sconosciute, povere e ignoranti, quindi, non conoscendo altro modo, decisi che avrei dedicato la mia vita agli altri. Iniziai a leggere le vite dei santi e a frequentare la chiesa, con grande gioia i mia nonna che era devota e molto religiosa. Dopo i missionari, avevo proseguito con le cerimonie del Natale, costringendo tutta la famiglia alla messa di mezzanotte e alla cena che ne era seguita.
    La chiesa divenne sempre più fredda, a volte si scorgevano le nuvolette di fiato e il cappotto non teneva abbastanza caldo. I Santi erano sempre lì, ma li osservavo poco, attenta a non lasciar passare alcun filo di freddo sotto la sciarpa. La neve interruppe per un poco la mia partecipazione alle funzioni, più per pigrizia che per difficoltà oggettive.
    Oramai a Pasqua ero stanca e le ginocchia mi facevano male. La mia permanenza al primo banco della chiesa era diventato un supplizio e l’odore dell’incenso cominciava a darmi fastidio, costringendomi a starnutire nei momenti più imprevisti.Avvertivo l’odore di umido e chiuso che spesso aleggiava nell’aria e i raggi del sole scomparivano presto deboli e sottili.
    Anche le statue dei santi cominciavano a sembrami brutte e molto statiche. Lo sguardo di S Rita non mi seguiva più e S Antonio non si muoveva dal suo breviario.
    A maggio andai alla recita del rosario indossando abiti freschi e il golfino blu che tanto piaceva alla nonna. Ebbi allora il permesso di fare un giro per le strade che circondavano la chiesa con le mie amiche, dopo la funzione, come premio. 
Il percorso era sempre il medesimo ma denso ogni sera di profumi, risate e chiacchiere.
    Ogni villetta aveva un giardino molto curato, traboccante di ortensie, gigli, calle dai lunghi steli e ogni tanto un tiglio in fiore, che aggiungeva un tocco di dolcezza e freschezza al profumo forte e pieno delle rose e delle peonie.
    Una sera incontrai Piero, uno dei chirichetti che servivano la messa e che avevo già salutato un paio di volte. Usciva da una villetta e mi chiese se ero uscita dalla funzione. Arrossii. La domanda mi disturbò, ma ancora non avevo capito perché.
    Alcune sere dopo mi accompagnò a prendere il gelato, lasciando le mie amiche da sole e con la scusa della macchia di gelato mi toccò una guancia. Mi piacque molto e il mio cuore cominciò a battere sempre più forte.
    Quando mi propose di rivederci al campetto accettai ben felice. Speravo in un altro gelato e in un’altra carezza.
    Così fu e l’idea di diventare santa si perse per sempre dentro un primo amore fatto di scaramucce, attese e confidenze.

    • Milvia ha detto:

      Grazie, cara Rita, per il tuo bel contributo, così denso di particolari e di atmosfere, da dare l’impressione di essere lì, accanto a te, a vivere le tue stesse emozioni. Santa: devo dire che mi hai davvero sorpreso… Non ho mai conosciuto nessuno che si proponesse di diventare Santo. Progetto ambizioso, che però, non ha potuto fare a meno di intenerirmi (e anche di spaventarmi) al pensiero che fosse nato nella tua mente bambina.
      Se il tuo testo fosse un romanzo (e, magari, potrebbe diventarlo) meriterebbe la definizione di “romanzo di formazione”. Davvero molto interessante, il tuo racconto d’infanzia e adolescenza. Grazie ancora.

  8. Isabel Martínez ha detto:

    Cara Milvia, avrei voluto scriberlo in italiano perchè ho fatto un piccolo resaconto di certi ricordi, ma finalmente l’ho fatto sul mio blog in spagnolo. Non me la sento di farlo bene in italiano. È un po’ magico: se provi a parlare della propria vita in passato remoto hai bisogno delle parole che esprimono odori, colori, sensazioni…
    Grazie per l’idea, e per farmi ricordare (e rivivere) tante cose che non sapevo che potesse avere dentro ancora.
    Un grande abbraccio.
    Isabel.

    • Milvia ha detto:

      Carissima Isabel, è sempre una grande gioia ogni tua visita.
      Mi fa molto piacere che tu abbia accolto il mio invito e che tu abbia pubblicato i tuoi ricordi d’infanzia nel tuo raffinato e bel blog. Sono andata a vederlo, e mi dispiace non conoscere lo spagnolo. Ma l’ho stampato e me lo farò tradurre da Alex, quando a Natale verrà a trovarmi. La fotografia è dolcissima e bella…
      Mi piacerebbe tanto che tu venissi in Italia. E ricordati sempre: my casa es tu casa!
      Un abbraccio fortissimo, cara amica.

  9. Adacreativa ha detto:

    io da bambina??? beh io da bambina fingevo di nascondere nell armadio esserini magici , avevo uno specchietto a forma di fragola e un altro a forma di mela,erano i miei specchi magici , mi trasformavo e ….non ricordo …ma se a casa venivano figlie di amici di famiglia, io mi vantavo di questa cosa, dicevo che avevo dei poteri magici 😛 , i cartoni animati mi influenzavano ed il cartone dal quale prendevo spunto per le mie fantasie era DOLCE CREAMY ….. buonanotte 🙂

  10. Anonimo ha detto:

    DELIZIOSISSIMO!!! Sei grande!
    Giovanna G.

  11. maria ha detto:

    Ho letto solo ora questo tuo post e non letto i commenti, i ricordi che mi vengono sono direttamente sollecitati dai tuoi:
    a 12 anni mi sono innamorata ..che te lo dico a fa… dell’attore di un film western!!
    era il ’68 e il film e gli attori erano italiani ma lui naturalmente, come si usava in quel periodo, si era dato un nome inglese che se non sbaglio era Robert Wood. Beh anche io avevo ritagliato un pezzo di giornale con la locandina del film, lui era piccolo ma a me bastava per ricordarlo e andare in brodo di giuggiole! me lo portavo sempre appresso e ogni tanto lo guardavo, sperando di incontrarlo per strada!! ero persa!!!

    non mi ricordo che hanno fosse, ma sicuramente prima dei 10 anni perchè fu quella l’età in cui mi dissero che Babbo natale e la Befana non esistevano, ero in cucina a mangiare ( allora per me e per i miei era un momento stressante!! 🙂 ) c’erano anche i miei amati nonni, credo che fossero i giorni subito precedenti al Natale. Mi incitavano a mangiare dicendomi che dovevo fare la brava perchè così Babbo Natale mi avrebbe portato i regali etcetc, che sarebbe entrato da fuori etcetc ed allora guardai fuori la finestra e lo vidi!! Il fatto che avessi visto, il caro Babbone, lo portai a testimonianza della sua esistenza contro coloro che la mettevano in dubbio.
    La magia dell’attesa di Babbo Natale e ancor di più della Befana ( a Roma era la festa più importante) era così intensa da essere quasi intollerabile, io credo che sia stata la gioia più pura che abbia mai provato: l’ attesa e poi trovare tutti i regali i giocattoli, sotto l’albero e sopratutto sotto la cappa!
    Beh ogni tanto ci penso alla Befana, e ogni tanto mi sforzo di aspettarla…ma non è mai più venuta..:-)

    • Milvia ha detto:

      Mi fa tanto piacere, Maria, che anche tu abbia voluto portare qui un po’ della tua infanzia.
      Anche tu, quindi, travolta da un amore impossibile in tenera età… Sai, mi vien da dire che forse sarebbe stato meglio (parlo per me) continuare ad amare personaggi… di carta, oggettivamente impossibili e lontani, piuttosto che vivere amori… soggettivamente impossibili.
      A me, i regali, li portava Gesù Bambino. Ricordo anch’io l’ansia gioiosa dell’attesa, e l’alzarmi alla mattina di Natale e correre a piedi nudi sulle mattonelle fredde del pavimento del corridoio fino ad arrivare nel tinello e trovare sotto l’albero i doni.
      Non ricordo più quando ho saputo che non era Gesù Bambino a portarmi i doni, forse ho rimosso la delusione, o forse è stata sommersa dalle tante altre delusioni con cui mi sarei scontrata da adulta.
      Immagino, sai, la piccola Maria mentre sostiene tenacemente che Babbo Natale esiste, dato che lo ha visto!
      La Befana è stata sempre una compagna minore, della mia infanzia, invece. I doni me li portava, ma l’attesa e la loro scoperta erano più tranquille.

      Un abbraccio, cara amica.

      • maria ha detto:

        A Roma, la Befana era la festa più grandiosa per i Bambini, poi è stata un pò surclassata dal babbo nordico, tanto è vero che, se non ricordo male, solo quando ero un pò più grandicella iniziò a portare i regali.

        Sugli amori “soggettivamente” ( molto particolare questo tuo distinguo, mi piace) impossibili…mah…è troppo complicato per dire qualcosa di sensato…il tempo e la vita hanno smorzato possibili considerazioni in merito 🙂
        un abbraccio a te amica mia
        maria

  12. Milvia ha detto:

    Che la Befana, a Roma, fosse importante, lo dimostra anche il fatto che Renato Rascel le abbia dedicato una canzone. La ricordi?
    Sugli amori…. non ho niente da aggiungere…
    Buon soggiorno torinese, Maria cara. E affettuosi auguri a te, alla tua mamma e all’intera famiglia.

  13. residenzadivacanza ha detto:

    Mi è venuta una nostalgia incredibile quando hai raccontato dell’ultima sera in cui hai parlato con il tua Angelo. Mi sono detta, nooo perchè, perchè poi non gli hai parlato più?! Ma quella domanda in realtà, era rivolta a me. Ed io quando ho smesso di parlare con lui?
    Beh quando ho smesso non lo ricordo, ma ricordo quando ho ricominciato.
    Non molto tempo fa.
    Io da bambina sognavo, sognavo sognavo … e quest’attività fa parte ancora di me,
    spesso ci scontriamo con la realtà, ma la dimensione magica del sogno non posso proprio abbandonarla.

  14. milvia ha detto:

    Benvenuta, Residenzadivacanza! È bello che tu abbia ricominciato a parlare con il tuo Angelo. Io non credo che ricomincerò a farlo, più che altro, a volte, ora parlo con me stessa…
    E in quanto ai sogni… Beh, i sogni che faccio mentre dormo, da anni, non riesco quasi mai a ricordarmeli, in compenso, da sveglia, continuo a farne tanti. Anche se a volte precipito nel pessimismo, continuo a percepire la vita come una dispensatrice di doni: e capita, a volte, che i sogni si realizzino.

    Buon fine settimana!

  15. rossa ha detto:

    solo che bel post 🙂

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