Il sopravvissuto (parte prima)

Questo racconto non è mai stato pubblicato in rete. ma fa parte della raccolta “Donne, ricette, ritorni e abbandoni” (Pendragon 2005), ancora acquistabile in diverse siti, per esempio qui.
È un racconto piuttosto lungo, e preferisco, quindi, pubblicarlo a puntate. Ho fatto pochi cambiamenti, rispetto all’originale, ma, rileggendolo, mi accorgo che il mio stile, ora, è diverso. Almeno così mi sembra.
Beh, buona lettura e buon fine settimana!

Il sopravvissuto

Sabato pomeriggio: Laura

Finalmente hanno chiuso la porta e se ne sono andati. Il vecchio ascensore scende con il solito fracasso, ma riesco ugualmente a sentire la voce rancorosa di mia madre che apostrofa mio padre in quel gioco crudele che dura da anni, da quando io mi possa ricordare; e immagino il viso di lui, incurante di qualsiasi cosa lei possa dire, sprezzante e distante da lei, con un’espressione peggiore dell’odio.
La cucina è ancora impregnata dall’odore del curry, di cui lei ha abbondato nell’ennesimo esperimento gastronomico, per l’ennesima volta fallito.
Spalanco la finestra. Il mare è calmo, e mi riempio lo sguardo con le sue diverse tonalità di azzurro.  Un bagnino sta sistemando i paletti per gli ombrelloni. Già,  fra poco è di nuovo estate, e la mia tesi è ancora un abbozzo nel computer, come un anno fa. “Il fenomeno del suicidio negli adolescenti” è questo il titolo della mia tesi.  Come sempre mi accade, nei compiti che mi impongo,  ho scelto unargomento impegnativo, il professore me lo aveva anche detto, e ora mi trascino da una biblioteca all’altra, mi cincischio su Internet, e finisco poi per non concludere niente. I miei  non mi dicono mai nulla, non un rimprovero, non un incitamento. Vivere con loro mi fa sentire più sola di un’orfana. Anche se so che mi vogliono bene.

Stasera Anna e Nicola mi hanno invitato ad una festa. E  ci sarà anche Luca.
Quindici giorni fa, quando l’ho conosciuto, ho sentito dentro una sensazione bizzarra, attrazione e rifiuto insieme: attrazione per una certa sicurezza che sprigiona, proprio quell’elemento che a me manca, rifiuto per un che di poco genuino che mi è sembrato di intravedere in alcuni suoi atteggiamenti, o meglio qualcosa di appartato, di scontroso nel suo sguardo, nei movimenti. E quel suo fazzolettino intorno al collo, poi, così lezioso e stonato! Ma quando mi ha telefonato e ci siamo ritrovati in pizzeria, noi due soli, abbiamo parlato fino a tardi: un po’ di tutto, politica, cinema, musica; abbiamo anche riso molto, ed era tanto che non mi capitava, dalla fine della storia con Remo sicuramente. Qui in casa, non si ride tanto, anzi, non si ride mai. Mia madre a volte ci prova, le sue battute potrebbero anche essere spiritose, se non fossero sempre demolitrici nei confronti di mio padre, che reagisce alzando un attimo il viso dal giornale che sta leggendo e la guarda come se fosse trasparente.
Quando mi ha accompagnato a casa mi ha dato un bacio sulla guancia, poi ha aspettato che entrassi nel portone. Mi sono affacciata alla finestra per chiudere le persiane: la sua auto era ancora lì sotto. Mi sono sentita protetta, ho pensato a Remo, a quando partiva rombando lasciandomi sul marciapiede, anche se avevamo appena fatto l’amore in casa sua, e mi era sembrato meraviglioso e dolce e innamorato. Poi,  quando tutto è finito, mi ha detto che con me non aveva mai fatto l’amore, ma aveva solo scopato. I miei non credo che scopino, né tanto meno facciano l’amore: si dice che per i figli sia imbarazzante pensare al rapporto sessuale dei genitori, per me non lo è, magari ci fosse fra loro qualcosa di diverso dalla rabbia. In ventisei anni non li ho mai visti abbracciarsi, scambiarsi una carezza, sorridersi.

Luca ha un bel sorriso. L’impressione che mi aveva fatto la prima volta, quella sorta di ambiguità che avevo avvertito, era errata. Sì, penso proprio che mi piaccia.

Mi metterò il vestito giallo, perfino a me sembra che mi stia bene. E poi l’ho comprato dopo Remo. Anzi, me lo ha comprato mia madre per il mio compleanno.  Sì, sì, lo so che mi vuole bene, che tutti e due mi vogliono bene.   A ferirmi è la mancanza di amore che c’è fra loro  e che mi rende insicura della mia stessa esistenza: da che cosa sono nata? Da una serata finita casualmente, dallo spasimo di un muscolo, da sperma uscito troppo in fretta? Mia madre era incinta, quando si sono sposati, e ventisei anni fa, qui, in questa piccola città di provincia, ragazza madre era sinonimo di puttana.

Devo farmi tagliare i capelli, la prossima settimana, non riesco mai a tenerli in ordine, così lunghi. Quest’estate dovrei trovarmi un lavoro, così avrei almeno un po’ di indipendenza economica. Chissà Luca cosa farà, la prossima estate? Veramente non so neppur che lavoro faccia, non che mi importi, ma pensandoci non è che sappia molto della sua vita. Quando Vito ce lo ha presentato ha detto di averlo conosciuto a uno stage di informatica, a Milano, nient’altro. Credo che lui sia contento che io sia uscita con Luca. Vito è il fratello che avrei sempre desiderato, un vero amico. Quando sono stata così male per Remo mi ha sopportato per ore e ore di interminabili pianti e voglia di niente, ore di silenzi e singhiozzi, di perché e di autolesionismi. Mia madre non ha mai voluto altri figli, credo che dopo me ci sia stato anche un aborto voluto,  così mi è sembrato di capire da parole sussurrate fra lei e sua sorella.
Non mi piace guardarmi troppo allo specchio, ma stasera ci tengo particolarmente a essere almeno un po’ carina. Quasi quasi guardandomi penso che ha ragione Cinzia quando dice che non sono niente male. Ecco le chiavi di casa. L’ascensore scende lentamente, e rumorosamente accompagna me e i miei pensieri stranamente positivi, stasera.

Domenica mattina (alba): Laura
Non accendo la luce mi infilo sotto le lenzuola non riesco neppure a svestirmi. Sento il cuore battermi nelle orecchie, non riesco a respirare bene. E mi fa male la gola.
Luca.
Devo mettere in ordine i pensieri, razionalizzare gli avvenimenti.
Ma mi sento spezzettata. La mente a zig-zag.
Luca.
All’inizio tutto bene.

Anna e Nicola avevano apparecchiato sul terrazzo; si vedevano le luci dell’autostrada, lontane. La musica di Leonard Cohen arrivava in sordina dalla sala da pranzo. Luca mi è venuto incontro e mi ha abbracciato, come sei carina, ha detto. Sembri un girasole. Lui aveva il solito foularino al collo, e un maglioncino rosso sopra i jeans.
Più tardi, molto più tardi, quel rosso  mi ha fatto pensare al sangue.
Ma non c’è stato sangue, fisicamente sono ancora tutta intera e, a parte il male alla gola, è dentro che il dolore mi lacera.
Alla fine della cena abbiamo brindato ad Anna e Nicola, che festeggiavano il secondo anniversario del loro matrimonio. Mi sentivo felice. Vito mi ha sorriso, lui è felice se io sono felice. Luca è stato gentile e pieno di attenzioni per tutta la sera. La sua allegria era contagiosa.  A un certo punto mi ha preso la mano e non l’ha più lasciata.

La guardo, quella mano, mi tocco la gola. Sento la nausea che sale dallo stomaco e mi riempe il cervello.

Siamo usciti insieme, io e Luca. Dal porto veniva il forte odore del mare, lui ha detto andiamo a vedere le barche, non è ancora mezzanotte. Sul molo poche persone, l’acqua scura sciacqettava contro gli scafi, da qualche imbarcazione venivano soffocati rumori di voci. Abbiamo camminato vicinissimi, non mi sembravo più io, forse era l’inizio di una storia, dopo tanta sofferenza. Luca si è fermato. La barca di un mio amico, ha detto, l’ha lasciata aperta per me. Mi sono tolta le scarpe per percorre più agevolmente la passerella.
“Benvenuta a bordo!” hai detto, e mi hai abbracciata.
Io non lo sapevo che lì ci sarebbe stato inizio e fine. Ma tu, tu, Luca, lo sapevi?

Sento mio padre che tossisce, mentre si alza per andare in bagno. Mi aggrappo a quel suono, lo sento da sempre, riconoscerei il suo tossire fra mille altri. Potrei andare da lui e raccontargli tutto e sono certa che ne riceverei consolazione e amore.  Ma raccontargli che cosa, poi? Che ancora una volta mi sono fidata di qualcuno, e che stavolta ho rischiato la vita? Come raccontargli della mano che ha cominciato ad accarezzarmi la gola, dolcemente, così dolcemente, Luca, la tua mano calda, poi il freddo setoso del foulard, che stringeva… che stringe.

La luce della lampada a batteria getta un colore bianco sulla cabina di poppa. Odore di sentina e olio, ma sto così bene… La cuccetta matrimoniale è abbastanza ampia, mi stendo vicino a Luca, mi rannicchio contro di lui. Sono mesi e mesi che non sto con un ragazzo, mi sento emozionata, le crude parole di Remo mi attraversano la testa per un attimo, ma con Luca sarà un’altra cosa, ne sono certa.
Ti stringo forte, la mia mano scende ad accarezzarti. Raccontami una storia, dici, la tua, c’è tempo per tutto, abbiamo tutto il tempo, dici.
E allora comincio a raccontarmi: quando ero piccola… E ancora: i miei, sai, sono… E poi: quando ho conosciuto Remo.
E qui forse ho parlato per ore. E alla fine: l’università, e la maledetta tesi nel maledetto computer.
Mi ascolti in silenzio, continui ad accarezzarmi, sento il tuo ascoltare come empatia al mio raccontare, un balsamo per sofferenze passate, per incomprensioni presenti, per rancori ancora svegli. Credo di amarti, dico in fretta, e poi: raccontami tu, la tua storia, adesso.
Ma lui  subito ha cominciato a baciarmi e a dirmi poi che non c’era più tanto tempo, la notte stava finendo, e che mi desiderava, che mi voleva. I vestiti sono volati per terra, mi sono sentita come lui pronta e impaziente e anche grata per quello che mi stava facendo riscoprire, dopo tanto tempo.
Le sue mani sono calde, sento il nostro desiderio come un fluido che ci avvolge completamente, che ci isola da  tutto.
Le sue mani sulla mia gola, accarezzano, premono dolcemente, come a voler percepire il battito della vita.
Le tue mani sulla mia gola, Luca,  il tuo respiro che si fa  roco e pesante e poi si trasforma in un lamento cadenzato. La pressione aumenta, ma non sono più le tue mani a stringermi, ma è il foulard che ti sei sfilato dal collo e io annaspo per respirare e le orecchie mi bruciano e mi fischiano e gli occhi sembrano volermi uscire dalle orbite.  Non è pietà per te, che mi suggerisce istintivamente di non opporre resistenza, ma di accarezzarti: è terrore puro.
E tu inizi a  piangere,  con un suono rauco che si miscela al mio respiro sibilante.
Millimetro per millimetro, secondo su secondo, la stretta si allenta, il mio respiro è appena un po’ più libero, poi sempre di più. Il respiro, a poco a poco, ritorna.
Sono libera. Il  foulard  è fra il mio braccio e  il corpo rannicchiato di Luca. Che continua a piangere e trema, trema tanto che sembra far tremare tutta la barca.  Non ho mai visto una rappresentazione della solitudine così reale.
Raccolgo in fretta i miei vestiti, inciampo nel suo maglioncino rosso, nuda, salgo in coperta e mi rivesto. Vomito nell’acqua, e mi sembra di non potere più smettere. La strada verso la casa di Nicola,  la faccio a piedi scalzi, ho dimenticato le scarpe, me ne accorgo solo quando salgo in macchina. Il percorso verso casa è un’automatica ripetizione di tanti altri percorsi, io non vedo nulla.

La porta della mia camera si socchiude piano: come ogni sabato mio padre viene ad accertarsi che io sia rientrata. Richiude e se ne torna nella sua stanza.
E finalmente viene il pianto. Che mi fa dolere ancora di più la gola, che mi fa bruciare gli occhi, ma che, lentamente, attenua l’orrore, per fare posto a una sorta di pena per una solitudine assoluta, per un male buio che Luca si porta addosso, senza poter forse chiedere aiuto a nessuno.

Sono stanca. Voglio dormire. So già che questa storia me la porterò dietro per anni.
Ma ora non voglio di pensarci.
Voglio solo dormire, adesso.
Domani, domani forse. Forse domani ti racconterò tutto, papà.
(continua)

Questa è una delle canzoni che Laura ha ascoltato a casa di  Anna e di Nicola:

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