Questo racconto l’ho scritto alcuni mesi fa, per poter partecipare al premio letterario internazionale promosso dall’Università Aperta Giulietta Masina e Federico Fellini, in ricordo di Stefano Benassi, docente della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Ateneo bolognese, che per anni ha tenuto laboratori di scrittura presso l’Università Aperta di Rimini. Come ho scritto e detto più volte devo a lui se ho ripreso a scrivere, e per tutti i suoi preziosi insegnamenti, e per la splendida persona che era, rimarrà una delle persone più importanti della mia vita.
Il racconto è risultato fra i dieci finalisti del concorso. Non è mai stato pubblicato: per una volta, insomma, leggerete un inedito.
Nessuna assoluzione
L’aria è fresca, stasera. L’afa è stata spazzata via dalla brezza che arriva dal mare. Dal terrazzo guardo il cielo, che è gremito di stelle, ma il buio è denso, intorno, come se ogni cosa, le case e gli alberi e le curve dolci delle colline e le bestiole dei boschi e io stesso, fossimo sprofondati in un fusto di catrame.
Solo là, lontano, là, dove inizia la costa, c’è una fila di lucine fioche, che mi fanno pensare a un lungo e stretto cimitero.
A Staglieno, dove sono sepolti i miei, non ci vado mai. I miei morti abitano dentro di me, non ho bisogno di andarli a trovare.
Come mio nonno Vincenzo.
Mio nonno Vincenzo faceva il poliziotto. Era un buon poliziotto, mi ha detto mia madre. Di quelli che un manganello non lo hanno mai adoperato. Anch’io faccio il poliziotto, lo faccio da tredici anni.
L’ho fatto fino a oggi.
Oggi, dopo tanto tempo, mi hanno mandato in strada. Era previsto l’arrivo da tutto il Paese di manifestanti incazzati. C’era bisogno anche di me.
Era dal 24 luglio 2001 che non uscivo. Dal 24 luglio del 2001, fino a ieri, ho sbrigato pratiche, ingobbito su una scrivania. Per mia scelta, è vero. I superiori, alla mia richiesta, avevano pensato che fossi preso dalla paura di tornare in strada: all’inizio del mese, Riccardo, il collega a cui ero più legato, era stato ucciso durante una rapina. Eravamo insieme, quel giorno, ma è toccato a lui prendere la medaglia.
Si sbagliavano, i miei superiori. La morte di Riccardo non mi aveva messo dentro la paura di morire ammazzato, ma solo una grande, grandissima rabbia. E la mia scelta, comunque, con Riccardo non c’entrava.
La rabbia è una brutta bestia, quando entra nel sangue di un poliziotto. Arriva al cervello, e comincia a dare ordini: Picchia, calcia, sbatti, spaccagli la testa, spaccagli il culo, devasta, non fermarti, urla la rabbia nel cervello del poliziotto. Del cattivo poliziotto.
In quel caldissimo pomeriggio del 21 luglio 2001 di cattivi poliziotti ce n’erano molti, nella Zona rossa. Era piena, Genova, di manganelli. E di grida. Era una città che puzzava di violenza e di paura.
Era piena, Genova, di occhi innocenti, sguardi giovani e antichi, e canti, e bandiere. Erano in tanti, zainetti colorati, visi scoperti, fazzoletti di un rosso sbiadito attorno al collo di vecchi partigiani. Un esercito della speranza.
Questo, però, l’ho pensato dopo.
Nell’assolato pomeriggio estivo, nella città che traspirava rumore e fumo, vedevo solo ciò che la rabbia mi faceva vedere: un esercito nemico, violento, e rivedevo Riccardo, il suo sguardo colmo di stupore mentre cadeva sull’asfalto.
La ragazza era sola, quando l’ho incontrata. Era ormai sera, mi ero allontanato dai miei perché dovevo pisciare, forse anche la ragazza si era allontanata dai compagni per quel motivo. Ero sudato, avevo sete, puzzavo. E mi mangiava la rabbia. Lei è sbucata da un vicolo, mi è venuta a sbattere contro. Era una di loro, una bandana arcobaleno le ricopriva in parte i capelli.
Le ho detto: Stai attenta, brutta stronza.
E lei: Stai attento tu, bastardo.
L’ho sbattuta a terra, lei si è coperta la pancia con le mani. La pancia, ho pensato, perché la pancia e non la testa, mi sono chiesto mentre calciavo, calciavo le sue mani, una, due, tre, dieci volte, quelle mani che rimanevano aggrappate al ventre, anche quando ho cominciato a dare calci alla sua faccia. Poi l’ho lasciata lì, a terra. Sembrava uno straccio da buttare, quando me ne sono andato. Nessun testimone, in giro.
Perché la pancia l’ho capito due giorni dopo. Ho rivisto la ragazza in un servizio di una tv privata. Uno scricciolo steso in un letto di ospedale, la faccia pesta. Ha detto che un poliziotto, a furia di calci, le aveva fatto perdere il suo bambino. E che di bambini non potrà più averne. Piangeva come se non potesse più smettere.
Sono andato in bagno. Mi sono guardato allo specchio e ho vomitato nel lavandino. Che razza di bastardo, sei, mi sono detto.
Il giorno dopo ho fatto richiesta di togliermi dalla strada.
La ragazza me la sogno quasi tutte le notti. Lei e il suo bambino non nato.
I ragazzi, oggi, sembravano gli stessi di allora. Anche la ragazza che si è avvicinata al nostro schieramento sembrava “quella” ragazza. Anche se non lo era. Si è avvicinata così tanto che ho sentito il suo profumo. Un profumo delicato, come giorni di primavera.
Accanto a me c’era Girolami, un duro, dicono tutti, uno che non ha il senso della misura. Ha detto alla ragazza: Spostati, troia.
Lei si è avvicinata ancora di più. Lui ha sollevato il manganello, lo ha abbassato verso di lei. Ho alzato il braccio e gli ho strappato il manganello dalle mani. Si è girato verso di me, furente: Questa me la paghi, ha detto. Una bella sospensione non te la cava nessuno.
Guardo tutte quelle stelle, sopra di me. Cerco la pace, l’oblio. Cerco, nell’infinito, l’assoluzione al mio peccato. Ma non ci sarà mai assoluzione per un cattivo poliziotto. Non basta un gesto di ribellione alla violenza, per cancellare un gesto di violenza compiuto in precedenza.
Domani lascerò la polizia, e poi…
E poi non so che farò della mia vita.
Grazie Milvia di questo ennesimo regalo!
Bello e crudo questo racconto
Cara Alba, l’apprezzamento di una persona che, come te, ha il dono della scrittura, non può che lusingarmi. Grazie!
Bellissimo questo racconto Milvia,veramente bello.Trovarti qui è bello.
Ma grazie, Bastet! Mi fa molto piacere il tuo commento.
Esistono racconti (ma andrebbero chiamati riduttivamente “prose” proprio per ribadirne in modo drastico l’irrefrenabile irrisolvibile distacco dalla poesia) a tema, dimostrativi e didascalici, che enunciano pronunciano dichiarano e frammentano la realtà secondo i voleri e le convinzioni dell’autore.
E poi ci sono, per fortuna, dei racconti che prendono spunto dalla realtà (aiuto! Stavo per scrivere “cronaca”, meno male che mi sono fermato in tempo) e si confrontano con essa con lo sguardo curioso, dubbioso ed esitante dell’Artista.
Già, perché raccontare sembra la cosa più facile del mondo, e forse lo è, ma sembra che ultimamente ci riescano in pochi.
Almeno secondo me.
Raccontare, secondo me, è cercare di mettersi nei panni dei personaggi, anche se quei panni sono stretti, puzzano e sono ruvidi al tatto. Non so se ci riesco, ma mi sforzo di farlo. A volte è anche doloroso.
Ciao, Luca!
Mi piace sempre leggere i tuoi racconti, Milvia, questo poi è veramente di grande attualità.
Davvero un bel testo, con numerosi spunti per la riflessione.
Un caro saluto.
Piera
Grazie, Piera cara! Un abbraccio.