Per chi non lo ha mai letto, per chi lo ha letto, ma non se lo ricorda (che non è che io sia uno di quelli scrittori che quando leggi una loro cosa rimani folgorato e ti rimane tatuata nei neuroni per sempre), insomma per chi vuole, ecco il ripescaggio di un vecchio racconto.
Et voila:
L’incubo di Anselmo
Lui, quando ancora era in grado di farlo, li aveva chiamati viaggi. Un odore, la rotondità della voce di una donna, lo splash delle scarpe in una pozzanghera. Bastava un niente, anche qualcosa di insignificante come la danza di una falena intorno alla lampada, di banale, come il sospiro asmatico dell’autobus che si fermava dietro casa. E la mente gli si animava e cominciava a nuotare a ritroso e lui si ritrovava dieci, venti, sessant’anni prima, in luoghi di cui aveva perso memoria, con persone che non rammentava più di avere conosciuto.
La Cesira, ad esempio, come aveva fatto a dimenticarsela.
La Cesira con le poppe alte come colline, i fianchi larghi, i suoi no arroganti buttati in faccia con una risata. I sogni che ci aveva fatto sulla Cesira, i sogni.
La Cesira gli era tornata in mente per l’odore del fieno, quel giorno che suo nipote lo aveva portato in campagna. Come se gli fosse entrata dal naso e gli fosse uscita dagli occhi. Gli era arrivata proprio lì davanti, con il vestito bianco e rosso che portava alla domenica, con quel bottone slacciato con malizia, e i solco fra i seni imperlato di sudore, e l’onda nera dei capelli. E lui si era alzato dalla panca che stava sotto il pioppo, e le aveva gridato, agitando il bastone, perché no? sempre no, mi dicevi, perché no? Solo con gli altri le allargavi le gambe…
Suo nipote era uscito di corsa dalla casa, nonno che c’è?, aveva chiesto. Poi, scrollando la testa, era rientrato.
“Cazzo, il nonno dà ancora i numeri”, aveva detto alla moglie. “ Non si può andare avanti così. Lo sai che dovremo prenderla presto, quella decisione. Soprattutto ora che è arrivata la bambina” .“Povero nonno Anselmo…” aveva mormorato la moglie.
Il vecchio si era seduto di nuovo. Il bastone era caduto a terra con un piccolo schiocco secco. Aveva socchiuso gli occhi, mentre il mento aveva preso a scivolargli verso il petto. La nebbia appiccicosa e densa era nuovamente lì, accucciata dentro la sua testa.
A fare del suo corpo tutto un tremito, come se le sue ossa fossero devastate dalla febbre, c’era poi quel sogno ricorrente. Quel cagnaccio con le fauci spalancate, con i denti lucidi di saliva, le gengive rosse come sangue, il ringhio che spezzava la notte. Un cane nero, enorme, pronto a balzargli addosso, ad annientarlo, a divorarlo.
Non era in grado, il vecchio, di dare spiegazioni al nipote che si precipitava in camera, svegliato dalle sue grida. Riusciva solo a coprirsi il volto con il lenzuolo, a rannicchiarsi sotto le coperte che sussultavano per il tremore del corpo, le ginocchia premute contro il ventre. E ce ne voleva di pazienza a Luciano, per calmarlo. E alla Cinzia, che arrivava poco dopo con la tazza di camomilla zuccherata. E intanto si svegliava anche la bambina, e bisognava correre da lei, e prenderla in braccio, e sperare che si riaddormentasse in fretta, ché gli occhi si chiudevano dal sonno e dalla stanchezza.
“Cazzo, non si può andare avanti così”, diceva Luciano, quando se ne tornavano a letto. ”Fra poco suonerà la sveglia, chi dorme più, adesso…”
“Povero nonno Anselmo…”, mormorava Cinzia, spegnendo la lampada.
L’incubo lasciava ad Anselmo anche una strana sensazione: come se dentro la sua testa svolazzasse un qualcosa di indefinibile che lui tentava inutilmente di afferrare. Un lembo stracciato di ricordo che se ne andava su e giù fra i corridoi della memoria, ormai sempre più bui, senza lasciarsi mai afferrare. Non era come quando lo veniva a trovare la Cesira. Che perfino l’odore, riusciva a sentirne. Non come quando per la prima volta gli avevano fatto vedere la bambina.
Quel visetto stropicciato gliene aveva portato un altro, alla mente. Quello della Rosita, e così l’aveva chiamata, la bambina, mentre Luciano si affrettava a dirgli di non toccarla, che le mani non se le era lavate, e che Chiara, si chiamava, non Rosita.
Chiara Chiara Chiara, si era ripetuto lui. Las ciama Chiara, brisa Rosita. Rosita la gne piò, la Rosita l’é morta.
La prima figlia di Anselmo era morta ad appena sei mesi di vita, due giorni dopo l’arrivo degli americani. Il corteo funebre con la carrozza bianca in testa aveva proceduto lentamente, fra jeep e sventolare di bandiere, fra pianti di gioia che avevano tolto voce al dolore straziante di Anselmo.
“Nonno, alla bambina non ti devi avvicinare”, gli diceva sempre il nipote. “I vecchi non si sa mai che malattie possano avere. Quando vuoi te la portiamo vicino noi.” Cinzia lanciava al marito uno sguardo obliquo, si accostava al vecchio e gli dava un bacio sulla testa. “Quando vuoi”, gli sussurrava ,“chiedilo quando vuoi”.
Ma Anselmo non lo chiedeva. Se ne stava seduto sulla poltrona, lontano il più possibile dalla carrozzina dove stava adagiata la piccola. Ne ascoltava i gorgoglii, le prime risatine, ne percepiva l’odore di latte. Imparava a conoscerla così, da lontano, quella nuova Rosita.
Anche quella notte aveva sognato il cane. Da sotto il lenzuolo con cui si era tutto ricoperto aveva avvertito la presenza di Cinzia. Ne aveva sentito la voce che lo chiamava con dolcezza. Lo stesso tono con cui lei parlava alla bambina. Si era scoperto il volto, aveva afferrato la mano della donna e se l’era premuta sulla guancia. I lineamenti di Cinzia avevano cominciato a scomporsi, e avevano preso le sembianze della moglie, morta tanti anni prima. Il tremore del corpo si era fatto più blando, e dopo poco si era riassopito.
Al mattino aveva ancora quel frullo, nella testa, quello straccetto mai afferrato di ricordo che sempre si presentava dopo l’incubo.
Anselmo si sistemò sulla sedia in giardino. Cane, biascicò. Va vi va vi va vi. Agitò per un attimo il bastone verso il cielo, poi si quietò e chiuse gli occhi.
Cinzia stese il plaid sul riquadro di erba, all’ombra della magnolia. Rientrò in casa e dopo poco riapparve con la bambina e la mise a sedere sul panno, insieme a qualche pupazzetto di gomma. Cominciò a farle il solletico, a baciarle le ditina paffute. Chiara lanciava acuti gridolini di allegria. Anselmo socchiuse gli occhi: l’è prezisa a la Rosita, pensò nel dormiveglia. Lo riscosse la voce di Cinzia:
“Nonno, devo andare alla posta. Vado in bicicletta, così faccio prima. Cinque minuti e torno. Chiara la lascio qui. La lascio con te. Non più di cinque minuti. Vieni, portiamo la sedia vicino a lei”.
Il vecchio spalancò gli occhi. Mosse la testa più volte per assentire e si alzò.
Fu il trillo di Chiara che lo riscosse dalla sonnolenza. E qualcosa di diverso. Un suono basso, come un brontolio di tuono quando si appresta il temporale. Aprì gli occhi.
Il cane era a pochi metri dalla bambina. Lei gli agitava contro una paperetta di gomma, e farfugliava allegra. Il cane era nero, enorme. La piccola gli gettò addosso il giocattolo. Il cane spalancò le fauci interrompendo il ringhio e si preparò a balzarle addosso.
La sedia cadde a terra senza alcun rumore. Il vecchio era in piedi, roteava il bastone con tutte le sue forze, lanciando grida che non parevano umane. Il cane spostò lo sguardo sull’uomo. E cambiò obiettivo.
L’ultimo suono che Anselmo percepì, prima di svenire, fu un secco richiamo in una lingua a lui sconosciuta.
Gli hanno portato la bambina. Lei gli ha sbattuto la manina sul braccio ingessato e ha fatto una risatina. Luciano e Cinzia sono ai due lati del letto. Altri pazienti non ci sono, in quella camera d’ospedale. Parlano fra loro. Ogni tanto Cinzia ripete la stessa frase: Se non ci fosse stato lui…Non mi potrò mai perdonare di non aver chiuso bene il cancelletto. E stringe la mano libera dal gesso di Anselmo, e se la porta alle labbra.
“Cazzo, quei cani lì dovrebbero tenerli legati …” l’nterrompe Luciano, “lo ammazzerei quello stronzo del padrone. È stato fortunato ad accorgersi in tempo che il suo cane era entrato da noi e lo abbia richiamato. Se no giuro che lo ammazzavo con le mie mani, quel figlio di puttana… Pensa te il nonno…ha avuto sempre una gran paura dei cani, lui. Mi viene in mente che mio padre mi aveva detto una cosa. Quando il nonno era piccolo un giorno un cane stava per sbranarlo. Avrà avuto un sei sette anni. Il nonno è riuscito a arrampicarsi su un albero, e quello stronzo di cane sotto, che abbaiava e ringhiava e continuava a saltare. Sembra che la cosa sia andata avanti per delle ore. Quando i suoi se ne sono accorti il nonno non riusciva più a parlare. È stato muto per dieci giorni, è stato. Insomma…voglio dire che è stato bravo, il nonno…Per la Chiara ha dimenticato la paura…”
“Sì, se non ci fosse stato lui…” Cinzia stringe la bimba al petto.
Una farfallina blu è entrata dalla finestra. Cinzia la guarda volteggiare per la stanza. Se ne sta in silenzio, la fronte leggermente aggrottata. La farfalla si posa per un attimo sui capelli di Anselmo, poi prosegue il suo volo, e torna all’aperto.
“Senti…”, inizia a dire Cinzia con voce incerta. Poi prosegue più spedita:
“Io credo che il nonno dovrebbe rimanere con noi. In casa. A me non da fastidio. È come avere un secondo bambino… Niente… casa di riposo, vero, Luciano?”
Luciano guarda il vecchio che sembra dormire. Allunga un braccio, come per una carezza. Poi le sue mani scivolano sulla coperta, e sistemano le piccole grinze che si sono formate.
“Andiamo”, dice poi “la Chiara deve mangiare”.
Anselmo non sta dormendo. Ha solo gli occhi chiusi. Sta pensando all’infermiera che gli ha cambiato la flebo poco prima. Bella mora… Due tette… Assomiglia a quella là, com’è che si chiamava? quella che si rotolava nel fieno con tutti. Con tutti meno che con me, borbotta stizzoso prima di addormentarsi.