Raccontino surreale, in un’uggiosa domenica invernale

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La leggenda della donna che non sapeva guardare

Andare di fretta: questo le piaceva.
Ticchettare sull’asfalto con le punte sottili dei tacchi.
Inerpicarsi lungo viottoli di montagna e gridare un veloce saluto nel vento e ridiscendere a balzi, come una capra.
Nuotare veloce fra le onde del mare, arrivare fino al faro, e poi di nuovo verso la spiaggia, raccogliere l’asciugamano e via, salire in casa.
Essere amata: questo le piaceva. Un uomo che l’accarezzasse, che le dicesse sei mia, per sempre, rimani. Ma lei non rimaneva mai. Se ne andava a cercare altri volti, altre mani, altre voci.
Fagocitava ogni esperienza, la digeriva, la espelleva Di ogni momento rimaneva solo un ombra, una cancellatura malfatta. Disattenta, non curante dei particolari, dei segmenti, delle congiunzioni, delle linee che si intersecavano, della luce che brillava sul passato per illuminare quello che era in divenire. Fluttuante. Medusa con abiti di carta colorata.
Ma un giorno, un giorno in cui si sentiva scontenta, e irrequieta, e maldisposta verso se stessa, fu proprio quel giorno che sentì la voce del Genio dello Specchio.
«Guardami(ti)!»
Non capì subito da dove scaturisse quell’imperativo, né ne afferrò bene la desinenza: mi o ti?
Era sola, nella sua camera, in piedi davanti al grande specchio, il pollice e l’indice intorno al bastoncino di kajal.
«Guardami(ti)!»
Allora lo vide: un piccolo essere vestito di una tunica rossa, una testina tonda completamente priva di capelli. Dondolava attaccato alla tenda della finestra, come se stesse giocando, ma intanto la guardava con uno sguardo così severo che quando sentì ancora quell’imperativo:
«Guardati!», non potè fare a meno di avvicinare il viso allo specchio e cominciare a osservarsi.
Una linea verticale le attraversava la fronte, proprio nel mezzo, con una precisione geometrica. Sotto gli occhi due occhiaie bluastre si appoggiavano agli zigomi. Brevi segmenti diagonali erano incisi al di sopra del labbro superiore. Ma quando erano stati disegnati tutti quei simboli? si chiese disorientata. Architetture del tempo, pensò. Continuò a osservarsi, ma già le rughe le sembrarono meno pronunciate, la pelle più luminosa. Scrollò le spalle, e, decisa a ignorare la fastidiosa presenza di quell’omuncolo, riprese a truccarsi gli occhi. Ma subito si interruppe. La voce aveva ripreso a parlare:
«Sei una persona incredibilmente distratta, perdi i giorni, gli anni, non ti soffermi mai a pensare al dolore, alla gioia, corri in tondo come una falena, ma non sapresti neanche dire che colore ha la luce che ti attira. Vedi, ma non guardi nulla. Tu vivi la vita in superficie, e allora, sai, è come non viverla. Morirai, e negli occhi non porterai nulla con te.
Ma oggi voglio darti una possibilità, la possibilità di porre rimedio alla tua distrazione. Io sono il Genio dello Specchio, colui attraverso il quale si impara a guardare. Voglio darti un compito, oggi, un esercizio di attenzione. Prendi un taccuino, una penna rossa e esci e scendi alla spiaggia. Togliti le scarpe, siediti sulla sabbia, in riva al mare. Apri il taccuino, tieni la penna fra le dita e comincia a fissare l’acqua. Fatti entrare tutte le sue sfumature di colore negli occhi, e vedrai che dagli occhi passeranno alla mano, e la mano si muoverà e comincerà a scrivere, e il mare entrerà nella carta, e ci rimarrà per sempre. Quando questo primo esercizio sarà ultimato affonda le dita nella sabbia. Anche le dita hanno occhi, sai? Scrivilo, com’è la sensazione della sabbia umida che ti penetra sotto le unghie. È un compito facile, quello che ti ho dato. Ma non tornare a casa fino a che non lo avrai finito. Io comparirò ogni volta che guarderai in questo specchio».
Ci fu un fruscio, la tenda ondeggiò lievemente, come mossa da una brezza leggera.
E rimase solo il silenzio.
Lei riprese il kajal, con le mani che le tremavano. Ma ancora una volta lo ripose. Uscì dalla stanza, entrò nel soggiorno e da un cassetto prese un’ agenda e una biro rossa.
Fuori il sole le fece socchiudere gli occhi. Descrivere. Descrivere il sole, per esempio, ma come si fa? Il sole è il sole. Dà caldo, dà luce. Non c’è altro da aggiungere, si disse. Sentiva ancora le parole del Genio dello Specchio: cosa aveva detto? vita inutile, futile?
Arrivò in spiaggia. Si tolse le scarpe, si sedette e allargò la gonna sulla sabbia. Il mare aveva delle onde. Bianche. Il mare era una massa d’acqua azzurra. Non riusciva a vedere nient’altro. La mano stava ferma, le dita stringevano la penna. Uno spruzzo salato le arrivò fino al viso, e bagnò la pagina bianca del quaderno. Lo vedeva, il mare, lo fissava con gli occhi spalancati, tanto che cominciarono a lacrimarle. La mano continuava a stare ferma, neanche un tremore, un piccolo guizzo delle dita. C’era una barca, all’orizzonte, con lo spinnaker rosso. Provò a chiudere gli occhi, a ricostruire la scena. Niente, un’assenza completa di immagini. La donna capì che ancora una volta aveva solo visto, ma non aveva guardato, non aveva interiorizzato nulla. La mano ferma continuava a stringere la penna. Riaprì gli occhi e giurò a se stessa che avrebbe lasciato la spiaggia solo quando fosse stata capace di guardare.

Non è una spiaggia frequentata, mai, neppure d’estate.
A volte qualcuno dei rari visitatori lascia cadere una moneta ai piedi della donna. È molto vecchia, potrebbe avere anche cento anni. Ma sta seduta eretta, e i capelli le scendono sulla schiena come un mantello candido, e vanno a perdersi sulla sabbia. Ha lo sguardo fisso sul mare, ma è come se non vedesse nulla. Fra le dita, dalle lunghissime unghie ricurve, stringe una penna rossa. Nell’altra mano tiene un quaderno aperto su una pagina bianca. Un ragazzo che è stato in India va dicendo che lei è un sadu, un sadu donna. Le ha fatto alcune foto, ma la vecchia non ha neppure girato il volto.

Brahms – Symphony No.3 – Poco Allegretto

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6 risposte a Raccontino surreale, in un’uggiosa domenica invernale

  1. lucarinaldoni ha detto:

    Sexy Sadie, what have you done? You made a fool of everyone. Così recitava una strana enigmatica canzone di John Lennon nel caos calmo del Double White dei Beatles. I Fab Four erano appena tornati da un corso di “meditazione” (ma le virgolette sono d’obbligo) in India, probabilmente trascinati da George Harrison, fortemente influenzato dalla cultura indiana, dalla religione indiana, dalla musica indiana (insieme a Brian Jones dei Rolling Stones e Jeff Beck degli Yardbirds fu tra i primi a usare quel particolarissimo evocativo freudiano strumento che è il sitar, che per ogni nota suonata ne manda in risonanza altre 32).

    Sadie-Sadu. Il tuo post mi dà finalmente una chiave di lettura su come mai il Maharishi Mahesh sia stato trasfigurato in Sexy Sadie. La leggenda urbana vuole che Lennon abbandonasse l’ashram del Maharishi prima della fine del corso, scandalizzato sia dalla evidente affezione al vile danaro del santone, sia dai suoi grossolani tentativi di passare dalla res cogitans alla res extensa con Mia Farrow, allora ex-moglie di Frank Sinatra e non ancora moglie di Woody Allen, e probabilmente con tutte le altre corsiste appena passabili (che però magari non lo andavano a raccontare a Lennon).

    Scusimi il mio nostalgiare, io divago sempre, mi chiamano il Dottor Divago. Citazione che faccio spesso dallo spassosissimo monologo-canzone di Andrea Mingardi, “Cara Uga” (kvando riceverai la mia pistola, se tu saresti intelligente, lo capestri da sola…).

    Passando dalla fuga del pensiero a una logica più ortodossa, questo nuovo post chiude la triade tesi-antitesi-sintesi: manifestazione di scollamento totale – descrizione di quante cose belle coinvolgenti interessanti ti tengano legata al Paese Scarpa – passaggio dall’autoreferenziale all’eteroreferenziale affidando a un personaggio immaginario le proprie contradditorie istanze, tra il conscio e l’inconscio, il premeditato e l’involontario, l’Io e l’Es.

    Quanta voglia avremmo tutti di sederci in riva al mare, che è più bello di sedersi in riva al fiume: perché sulla corrente del fiume (ormai lo sanno tutti ed è un dato acquisito) vedi passare il tuo nemico e non è una bella cosa; sulle onde del mare, se hai pazienza, vedi passare la tua storia e “i drammi che commuovon te soltanto” e magari capisci tante di quelle cose che quando ti alzi puoi tornare nell’entroterra con ben altra cognizione di causa.

    Io a guardare il mare di solito mando avanti Fernando Pessoa e per quello mi son sempre trovato bene.

    Uno strettissimo abbraccio.

    • Milvia ha detto:

      Come sempre il tuo commento è ricco di citazioni, di note musicali, di suggestioni. Credo che riusciresti a commentare con tanta ricchezza anche una semplice nota della spesa.
      Non sono poi sicura che sedersi sulla riva del mare sia più bello che sedersi sulla riva di un fiume. In questi ultimi anni ho cominciato a provare per i fiumi, per il loro odore, per la loro… finitezza, contrapposta all’apparente infinità del mare, un affetto profondo. Tu, che… trivelli la psiche di noi mortali, per tentare di estrarne ogni scoria, chissà se puoi spiegarmi questa mia nuova propensione?
      Un abbraccio, dotto amico. E continua a divagare…

  2. Mirella Giordani ha detto:

    Ma che bel racconto, inusuale per te, direi. Ricco di suggestioni, a cavallo tra conscio e inconscio dal quale affiora un Super Io severo. Sempre se Luca mi permette questa intrusione in un terreno che appartiene più a lui che a me (bel commento quello di Luca, che ringrazio per la citazione di ‘cara Uga’. Credevo di essere l’unica al mondo a conoscere-ricordare questa canzone).
    Senti, cara Milvia, guardarsi con occhio critico va anche bene, ma se quel rompiballe di Super Io esagera, apri la finestra, con una manata scaraventalo di sotto e lo specchio usalo solo per darti il Kajal.

    • Milvia ha detto:

      Ogni tanto mi scappano fuori ‘sti racconti fuori dalla realtà, che poi non amo neppure troppo. Voglio precisare, comunque, che non mi raffiguro per niente, nella donna non guardante. Forse con occhi a volte miopi, cerco di guardare, e non solo di vedere, o almeno lo spero. E poi… non riuscirei mai a nuotare fino al faro, né ad arrampicarmi sulle rocce… Quanto ai tacchi, sono anni che non li porto…
      Quel rompiballe del mio Super Io, quella volta (anni fa) che scrissi questo racconto se ne stette zitto.
      Un abbraccio sorridente.

  3. falconieredelbosco ha detto:

    a me piace molto l’immagine della donna sulla spiaggia, son convinto che i suoi occhi e i suoi orecchi contengono tutto il mare davanti a lei. Sono questi i racconti che piacciono a me.

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