Come avevo scritto nel post precedente, domani andrò a Reggio Emilia, per assistere in diretta a uno speciale di Radio3, che vuole così festeggiare l’anniversario della nascita del tricolore. Probabilmente tempo fa questa ricorrenza mi avrebbe lasciato abbastanza indifferente. Non mi sono mai sentita particolarmente nazionalista. Però, frasi pronunciate in questi ultimi anni, come “Con il tricolore mi ci pulisco il culo” (Umberto Bossi) o “Il tricolore è il simbolo degli spaghetti e della mafia” (il suo amichetto Borghezio) o, ancora il padan Umberto, a Venezia, a una signora che aveva esposto il tricolore: “Signora, lo metta nel cesso” (certo che sono raffinatissimi, questi leghisti…), mi fanno venire l’orticaria, perché sono frasi che rappresentano un pensiero che va ben al di là del dispregio verso un simbolo.
E allora, pur continuando a preferire la bandiera arcobaleno della Pace, che
ormai sofferente e sbiadita, sta da anni appesa alla ringhiera del mio balcone, mi unirò anch’io ai festeggiamenti organizzati dalla mia mitica Radio3.
Poi, domani sera, direttamente da Reggio Emilia, raggiungerò Rimini, e fino a lunedì starò in compagnia del mio figliolino e di amici che non vedo da un sacco di tempo.
Per non farvi troppo sentire la mia mancanza (ho delle belle illusioni, eh…)
vi lascio con la seconda parte del 17’ capitolo di Isole. La prima parte l’avevo pubblicata il 18 novembre, e potete recuperarla QUI
Altri precedenti capitoli potete leggerli cliccando a destra dello schermo, sulla categoria Isole.
Ah, un’ altra cosa, la mia ultima scoperta nella blogsfera: Adriano Maini
(ringrazio il carissimo amico Antonio/ReAnto, per avermelo fatto scoprire…).
E adesso…. Isole! Capitolo 17, parte seconda.
C’erano giorni, però, che Michele le apriva la porta e la guardava quasi come se non la riconoscesse. La teneva lì, sulla soglia, per qualche secondo, la fronte aggrottata, lo sguardo ostile. Poi spalancava la porta e “Entra”, le diceva. Assunta si teneva addosso il cappotto, in quei giorni, camminava incerta nella stanza, toccava nervosa qualche oggetto, e intanto lui se ne stava in silenzio, seduto al tavolo da pranzo, le braccia abbandonate sulle ginocchia, gli occhi chiusi. La prima volta che era successo, Assunta gli aveva chiesto: “Non stai bene?”, e Michele aveva scosso la testa, senza dire niente. Lei gli si era avvicinata, gli aveva fatto una carezza sui capelli, ed era la prima volta che si lasciava andare a un gesto così intimo, e lui si era alzato di scatto ed era entrato nella camera da letto. Assunta aveva aspettato un poco, poi era uscita, chiudendo la porta senza far rumore.
Aveva poi imparato a non chiedere più nulla, a non avvicinarsi, quando lo trovava così, e ad andarsene quasi subito dopo essere entrata.
Era in quei momenti che si dava della stupida. Aveva impegnato vent’anni per tenere lontano le emozioni, senza concedersi mai una tregua. Non era stato facile. Non era stato facile combattere con la continua ricerca di affetto di Nadia. A volte, quando la sorella era piccola, e la cercava, e le correva incontro per abbracciarla di ritorno dalla scuola , aveva sentito, vicino al cuore, come un nodo che si stesse sciogliendo. No, non era stato facile mantenersi ferma, non allargare le braccia e stringerla a sé. L’odio infantile che aveva provato per Nadia se ne era andato, e Assunta, non potendo correre il rischio che al suo posto si insinuasse l’amore, l’aveva sostituito con una sorta di indifferenza.
E in quei giorni, quando Michele era così distante e ostile, lei, scendendo le scale per ritornare a casa, si dava della stupida. Sono caduta, si diceva, sono caduta. A ventinove anni non posso essere così stupida da credere che qualcuno mi possa voler bene. Io-non-vo-glio be-ne- a- nes-su-no, scandiva ad alta voce facendo gli ultimi gradini.
Tornata a casa le capitava di essere più dura del solito con Nadia, gioendo, quasi, se vedeva le lacrime che riempivano per un attimo gli occhi della sorella. O di nascondere le sigarette alla madre, lasciando che le sue recriminazioni riempissero il silenzio della casa.
“Non ci vado più, là” si riprometteva ogni volta. Ma il giorno dopo eccola di nuovo salire quelle scale, suonare il campanello, aspettare che Michele aprisse la porta, mentre i battiti tachicardici del cuore le opprimevano il petto. Michele spalancava la porta “Ciao, Assunta!”, le diceva con rinnovato sorriso, “Finalmente!” esclamava chiudendo la porta. Assunta, allora, pensava che la sua ostilità l’aveva solo sognata, e il cuore riprendeva a batterle regolarmente. Andava in cucina e metteva sul gas il bollitore dell’acqua: prendere il the, insieme, era diventata un’abitudine.
In quei primi giorni di aprile del 1980 la primavera era in ritardo, il freddo sembrava non volersene andare, le temperature continuavano a essere quasi invernali. Il 4 aprile – mancavano due giorni a Pasqua e quella data se la sarebbe ricordata per sempre – prima di andare da Michele si fermò dal fioraio per prendere un mazzetto di anemoni. Voleva stemperare il grigiore di quell’inverno tardivo, affermare che era, comunque, primavera.
Entrò nell’appartamento, fece un piccolo inchino, poi tese il braccio verso Michele, consegnandogli i fiori: Per te, mio amico caro, disse ridendo. Lui la guardò, ed era uno sguardo come una carezza, si trovò a pensare Assunta. Poi la prese fra le braccia.
All’improvviso lei si trovò gli occhi pieni di lacrime: la morbidezza della maglia di Michele sotto la sua guancia, le parve di una dolcezza estrema. Una sensazione mai provata, struggente, quasi insostenibile.
Affondò il viso nel petto di Michele, aspirò il suo odore, un odore buono e sconosciuto, mentre le lacrime le scendevano dolci lungo il viso.
Lentamente, in una sospensione del tempo e dello spazio, si ritrovarono in camera da letto. In silenzio lui cominciò a spogliarla, e la guardava, intanto, dentro gli occhi la guardava, uno sguardo che era ancora una carezza.
Poi la fece stendere sul letto. Si tolse i vestiti e lei si sentì dire: Il maglioncino no, tienilo, il maglioncino. Le sembrava di galleggiare in una dimensione mai conosciuta prima di allora, sentiva un tepore che le avvolgeva il corpo come una confortevole coperta.
Michele si stese accanto a lei, in quel letto stretto, a malapena adatto per il riposo di una sola persona. Iniziò a baciarla, dapprima con delicatezza, sulla fronte, sugli occhi, sulle guance, poi sulle labbra, e di nuovo sugli occhi e sulle guance, e ancora sulle labbra, schiudendogliele, con impazienza, questa volta.
Assunta non aveva più pensieri, in testa. Sentiva solo che il suo corpo esigeva qualcosa cui non sapeva dare nome, un’urgenza di completamento, come se fino ad allora fosse stato incompiuto.
Ma quando Michele le si mise sopra, scattò qualcosa, dentro di lei e fu come se la mano di un gigante la prendesse e la facesse precipitare in un pozzo, e nel fondo di quel pozzo c’erano sua madre e un uomo, avvinghiati, lui sopra lei, e le pareti del pozzo amplificavano respiri affannati, suoni gutturali.
Cominciò a urlare e spinse via Michele, e continuò a urlare, alzandosi dal letto. Poi si lasciò scivolare a terra. E iniziò a piangere.
Non si accorse di quando Michele l’avvolse nella coperta, né lo vide mentre si rivestiva. Improvvisamente se lo ritrovò seduto accanto sul pavimento, mentre cercava di farle bere un bicchier d’acqua.
Lo guardò e nei suoi occhi vide stupore e dolore. Allora cominciò a raccontare.
Nei giorni successivi sospesero ogni lavoro. Le assi per la libreria rimasero accatastate in un angolo della cucina, e, per comprare le arance, era ormai troppo tardi. Stavano stesi sul letto, i corpi che si toccavano, trasmettendosi un calore reciproco. Assunta parlava, riviveva il suo passato, ogni giorno gli riaffidava i segreti che avevano condizionato la sua vita. Michele ascoltava, quasi sempre in silenzio. L’accarezzava, la stringeva più forte quando il pianto di Assunta interrompeva il racconto. Una volta le disse: “La vita ci porta su strade che mai avremmo pensato di percorrere e a volte c’è un’unica scelta obbligata: continuare a seguirle, fino al loro termine. Se sia giusto, o sbagliato, lo capiremo alla fine.”
“Mi sono innamorato di te” le disse. “ E pure questa è una strada su cui mi sono trovato mio malgrado”
“ Ti amo”, disse lei. “ Ma è tutto così difficile…”
Non sapeva, Assunta, che quella stessa ultima frase, suo padre l’aveva detta a sua madre, su un altro letto, in un altro luogo, tanti anni prima.
Michele non tentò più di fare all’amore con lei. Continuava a desiderarla, ma sapeva che non doveva commettere più errori. Ne aveva già fatto uno innamorandosi di lei.
E venne la fine di aprile. Quel giorno, il 30, era un mercoledì freddo, ancora lontano dai tepori primaverili. Eppure la primavera aveva ripreso a cantare, nel cuore di Assunta. Uscendo di casa, aveva pensato che
forse era pronta a dimenticare, a perdonare se stessa, a perdonare anche sua madre, aveva pensato. Aveva pensato che forse avrebbe potuto cominciare a vivere.
Suonò e suonò di nuovo. Ma al trillo del campanello non seguì l’aprirsi della porta, e il sorriso, e l’abbraccio. Bussò e ribussò, chiamò il suo nome. Non le era mai capitato di non trovarlo.
Poi corse a casa, prese le chiavi di riserva, ritornò in via Cevoli, con la paura che la inseguiva come un fantasma. Volò sui gradini, dovette aiutarsi con l’altra mano per tener stretta la destra, che si era messa a tremare e impediva alla chiave di entrare nella serratura.
L’appartamento era buio. Accese la luce, vide le assi per la libreria appoggiate nell’angolo vicino al frigorifero, la tazza della colazione messa a sgocciolare sul piano del lavello, insieme alla macchinetta del caffé. Mancava qualcosa, si accorse. I libri, la pila di libri appoggiata per terra, non c’era più.
Nella camera da letto, l’armadio, con le ante spalancate, era vuoto.
Sul tavolo di cucina c’era una grande busta gialla.
All’interno l’importo di un mese di affitto, la scrittura privata per la locazione dell’appartamento, e un biglietto bianco, con su scritto: Non è colpa tua.
L’assenza può essere presenza, perché ti accompagna per tutto il giorno, e ti sta accanto alla notte, e popola i tuoi sogni, e te la ritrovi davanti al mattino, non appena apri gli occhi.
L’assenza di Michele stava appiccicata ad Assunta come un fratello siamese. La soffocava. Con il suo fiato sempre addosso le opacizzava la vita, molto più di quanto avessero fatto le vicende della sua infanzia. E poi c’era la domanda, continua: perché? E la condanna, come risposta: perché sono una stupida. Perché mi son data una tregua, e non dovevo. Non riusciva a odiarlo, Michele. Quel sentimento d’amore, che mai aveva sperimentato prima, era un groviglio che non riusciva a distruggere, che rimaneva intatto, nonostante tutto.
“Sei sempre più matta”, le diceva la madre, notando che la figlia aveva ripreso a buttare cose dalla finestra.
E Nadia la guardava con timore e delusione. Negli ultimi mesi, a parte in qualche occasione, la sorella le era sembrata cambiata, una volta le aveva fatto perfino una carezza, anche se poi aveva ritirato subito la mano, come si fosse scottata. E Nadia aveva sperato che Assunta, finalmente, avesse cominciato ad amarla. Ma ora era tutto tornato come prima, anzi, pensava Nadia, ancora peggio di prima. Si muoveva in una maniera ancora più rigida, la sorella, come l’automa che avevano fatto vedere in un film alla televisione.
Arrivò la fine di maggio e ancora il caldo tardava ad arrivare. Ma Assunta non se ne accorgeva, indifferente a tutto, se non allo spettro dell’assenza.
Nadia aveva acceso il televisore, poi era uscita in giardino, per dar da mangiare a un gatto randagio.
Era l’ora del telegiornale, e Assunta stava apparecchiando la tavola. In una città del nord c’era stato un conflitto fra polizia e brigatisti rossi, stava dicendo lo speaker. Due brigatisti erano morti, e un poliziotto era rimasto ferito gravemente. Assunta lo ascoltava appena, più che mai lontana dalle cose del mondo. Ma si trovò casualmente davanti allo schermo proprio mentre veniva mostrata la fotografia di uno dei brigatisti. Si chiamava Luigi Manzi, stavano dicendo, ma aveva lo sguardo di Michele, le labbra di Michele, i capelli scuri di Michele, con il ciuffo che gli scendeva sugli occhi. Le spalle un po’ curve di Michele. E indossava quel maglioncino, così morbido, che l’aveva fatta piangere.
Quella sera fu Nadia a servire la cena a sua madre. Quando aveva bussato alla porta della camera della sorella, lei non aveva risposto, e quando aveva abbassato la maniglia si era accorta che la porta era chiusa a chiave dall’interno.
Decise di agire la mattina dopo, mentre Nadia era uscita e Celeste se ne stava chiusa in camera.
Si mette quel vestito azzurro che piaceva a Michele.
Va in soggiorno, prende una sedia e la trascina fino alla finestra.
Da qualche parte arriva l’abbaiare di un cane e il grido di un bambino che lo richiama.
Si china a togliersi le scarpe. Le sistema ordinatamente una a fianco all’altra, e pensa che è così che le metteva, ai piedi del letto di Michele.
Ora il suo perché ha una risposta, che le sembra più intollerabile di qualsiasi supposizione. Ora, che è certa che non lo vedrà più, e che l’assenza sarà per sempre.
Solleva l’orlo del vestito e sale sulla sedia.
Di quell’episodio lei e sua madre non hanno mai più parlato. Non ha più parlato, Celeste, di quel giorno di fine maggio del 1980, quando è uscita dalla sua stanza, e qualcosa che non sa spiegarsi l’ha portata in soggiorno. E ha visto Assunta in piedi sulla sedia.
Non ha più parlato, Assunta, di come sua madre l’abbia abbrancata da dietro, e di come tutte e due siano cadute a terra, e di come per un attimo sua madre l’abbia tenuta stretta, e sembrava cullarla.
Poi Celeste si è alzata, ha raddrizzato la sedia, l’ha rimessa a posto ed è tornata nella sua camera.
Assunta è rimasta sul pavimento per qualche minuto.
Poi anche lei si è alzata, si è rimessa le scarpe e ha chiuso la finestra.
La nostra Storia, certe nostre storie, scritte con la penna di un'autrice sensibile con autorevole dignità. Ed un mio piccolo pensiero allo storico tricolore di Reggio Emilia.
Adriano Maini
goditi questi giorni con tuo figlio e gli amici.
sono momenti molto seri questi che si stanno ancora profilando per il nostro paese.
Bello il racconto.
ciao
io sono tornata da Roma, che è sempre la capitale della mia nazione…pur così caotica, sfliacciata, talvolta insopportabile.
buon we al mare d'inverno!
Adriano Maini: grazie della visita, Adriano! E grazie per le belle parole.
Milvia
Cri: Infatti, cara Cri, ho cercato di sopendere gli amari pensieri.
Ti abbraccio, Cri!
Milvia
Margaret: ormai stai diventando romana! Sarebbe bello che una volta la tua visita nella capitale coincidesse con una mia…
Ciao, Maggie! Un bacio.
Milvia
neanche io mi sono mai sentito particolarmente nazionalista, ma la padania non esiste, è il più grossi bluff socio-culturale prodotto dal dopoguerra ad oggi, quindi…..
Francesco: la padania, come la intendono quelli là, certo che non esiste. E più che un bluff, io direi che è… Ma non voglio scrivere parolacce, questa sera, per cui qui mi fermo. Benvenuto in RossiOrizzonti, Francesco.
Milvia
Il respiro del racconto lungo, o addirittura del romanzo, esigono dal frequentatore standard di Internet una disponibilità e volontà di approfondimento non usuale.
E così, pagine come questa, complice anche il periodo di distrazione semifestiva in cui è stata pubblicata sul blog, finiscono facilmente per non trovare l'attenzione che meriterebbero.
Da parte mia, reduce anche da un'indisposizione che ha rallentato tutti i miei propositi, ho trovato solo oggi il momento per leggerla.
E come altre tue pagine, mi ha arricchito, facendomi assistere di nascosto a conflitti sotterranei di coscienza e alle loro manifestazioni più clamorose nella realtà del piano narrativo.
La veridicità dei personaggi e dell'intreccio drammatico è quasi sempre buona, in certi punti ottima, come quando sembra di condividere il tempo lacerante dell'attesa a fronte dello spezzarsi delle buone abitudini quotidiane di una troppo breve stagione.
Sono sicuro che la pagina stampata potrà dare a questa storia, e alla tua capacità di immaginarla e narrarla, tutto il giusto interesse di un vasto pubblico di lettori.
Un caro salutone.
Franz
Franz: ti sono davvero grata per questo lungo, bel commento. Il pensiero di arricchire qualcuno, e in special modo un caro amico, con le mie pagine… beh, mi fa fare saltelli di gioia, rinforza una sicurezza che in me è gracile, magrolina magrolina, contrariamente a quanto io possa apparire. Insomma, un po’ come se tu, con i tuoi commenti, fossi il personal trainer della mia auto-stima.
Per cui: grazie di cuore!
Milvia