Un racconto, una poesia. Prima di partire

Per chi fosse curioso di leggere i due testi premiati, eccoli qui.
Ve li lascio prima di partire.  Ma come riuscirò a essere in aeroporto giovedì alle 5 e mezza del mattino? Ce la farò a svegliarmi? Mah…

La veglia

E ti sto a guardare, ma non ti riconosco. Non li vedo i tuoi occhi, che avevano da tempo imparato la dolcezza. E anche le labbra le vedo appena. Come se si fossero scavate una fossa fra il naso e il mento, per seppellire il sorriso.
La prima volta che mi hai sorriso è stato quando ho sbagliato  a dire una parola. Avevo detto: nella placcia c’è il mercato. E tu mi hai detto che placcia ti faceva venire in mente un posto grasso e tondo, mentre la nostra piazza era stretta e lunga. È come te, hai detto. E hai sorriso. Al tuo sorriso ho legato la parola nostra: nostra piazza, avevi detto. Ho capito che sarebbe andato tutto bene, da quel momento, e che sarebbe andata via quell’onda scura che ti riempiva gli occhi, quando mi guardavi. Ti ci erano voluti tre mesi, per mandarla via. Poi me lo hai detto, il perché di quell’onda. Volevo starmene da sola, mi hai detto. Che non ti piaceva l’idea di un’estranea che ti girava per casa, hai detto. Ma avevi dovuto cedere, perché i figli potessero stare tranquilli.
Dalla cucina arrivano le loro voci. Sono ore che vanno avanti. Non sento quello che dicono, ma che stanno parlando di me lo capisco. Sono ringhi di cane, quelle loro voci. Vorrei andare in cucina e dirgli: State zitti!  Ma rimango con te, perché non so fare altro.
Erano mesi che non si facevano vivi. L’ultima telefonata a Natale, e già  siamo ad aprile. E tu che dicevi: Hanno tanto da fare, non hanno tempo. E poi lo sanno che ci sei tu, per me. Non sono cattivi, dicevi, mi vogliono bene. E io che ripetevo: Sì, non sono cattivi. Non trovano il tempo. Ma intanto pensavo che il tempo io, al posto loro, lo avrei trovato, e mi veniva da farti una carezza sul viso reso stanco dagli anni. Ma la mano mi si fermava, perché c’è stato sempre un pudore dei gesti, fra noi.

E continuo a guardarti, mentre ti tengo una mano, ora che il pudore non fa più muro, e dalla finestra entra l’aria  salata di mare e arrivano le voci dei gabbiani e della vita che continua. Al mare ci andavamo anche d’inverno. Mi dicevi: Copriti bene, che c’è vento, oggi. Ti piacevano quelle mattine ventose, con le onde del mare che sbattevano sulla scogliera e si aprivano in spruzzi bianchi, per poi ritornare giù, e lasciare il posto ad altre. Mi raccontavi che nell’infanzia il mare ti faceva paura, ma che un giorno hai pensato che era brutto avere paura di una cosa tanto bella, allora hai deciso di entrare nell’acqua. E il mare mi ha abbracciata, dicevi, mi ha abbracciata e io ho abbracciato lui, ma piano, con dolcezza, come due fidanzati giovani giovani, raccontavi. D’estate, alla spiaggia ci andavamo poco prima che il sole calasse. Dicevi che quello era il momento più pulito del giorno. C’erano volte che camminavamo  fino  al molo, tu con quei tuoi passi lenti, come se i piedi avessero parole da pensare e non volessero farsele  sfuggire. Io che a fatica rallentavo il passo, che sempre ho camminato veloce, nella mia vita. Sempre a rincorrere qualcosa, o qualcuno.
Stavamo in silenzio, per la maggior parte del tempo. Poi, quando era ora di tornare, cominciavi a dire: Quando era vivo mio marito… Ed era come se ti fossi ripassata una storia, dentro di te, mentre camminavamo sul bordo del mare, e, finalmente sicura, la tirassi fuori. Raccontavi con una voce incantata, sentivo note di musica felice, nella tua voce. Come se raccontassi l’Eden. Io ti ascoltavo, io, che il marito ancora ce l’avevo vivo, ma non era l’Eden, la mia storia, pensavo. Dicevi di lui, di come fosse gentile e bello, non proprio bello, aggiungevi, un tipo alla Jean Gabin, così, ma gentile. Non sapevo chi fosse Jean Gabin. Una stella del cinema, mi hai detto. E quando siamo arrivate a casa mi hai fatto vedere una sua foto, su un giornale ingiallito e hai preso la foto del matrimonio e l’hai messa vicino alla fotografia del giornale. Sì, ho detto, si assomigliano. Anche se non lo pensavo. Per farti piacere, l’ho detto.

Chissà dove le metteranno, loro, le fotografie. E i tuoi libri, quelli che mi leggevi ad alta voce. Senti come è bella la mia lingua, dicevi, e mi spiegavi ogni parola che non conoscevo, e mi si apriva un mondo, davanti agli occhi. Li butteranno, loro, quei vecchi libri. Butteranno i libri, la fotografia di Jean Gabin  e gli asciugamani che, mi hai detto, avevi ricamato per il tuo corredo.
Continuano a ringhiare, di là. Ringhiano per  quel foglio.  Per quel foglio che hanno trovato, uguale a quello che tu hai portato dal notaio, saranno due mesi. Me lo hai letto, quel foglio. C’è scritto che mi lasciavi la casa,  quando saresti morta. E io ho detto: No, lei non muore, signora.

E invece.
Questa mattina mi hai detto: Non ho voglia di alzarmi. Dormo ancora un poco. E non ti sei svegliata più.
Ma io la casa non la voglio. Non è casa mia, adesso che te ne sei andata.
Adesso glielo vado a dire, ai tuoi figli, che non la voglio. Che stiano tranquilli. Che la casa è loro.

E che facciano silenzio, alla fine.

 

Afasia 

 Vorrei scrivere parole, questa notte.
Parole che feriscano, che scavino
sotto la pelle
come parassiti a ulcerare le vene
che, come uncini,
la strappino a brandelli.

Vorrei scrivere parole, questa notte.
Parole che leniscano il dolore
come una mano fresca che si posa
sulla fronte ardente per la febbre
a stemperarne il fuoco.

Vorrei scrivere parole, questa notte.
Parole che riscaldino come la fiamma
in una baita montana
quando all’esterno il ghiaccio morde
coi suoi denti di lupo.

Vorrei scrivere parole, questa notte.
Parole come sale, parole come roccia,
parole come manna, parole come alcove,
parole scavate nella carta
come trincee di guerra.

Ma è così piatta la mia anima, stanotte.
Stanotte la mia anima è come un mare di piombo
su cui ogni vela non ha più potenza.
E il mio afasico cuore non fa più rumore
della nebbia che avvolge questa casa.  

(Roma, 13 dicembre 2006 Ore 1,38 a.m.)

Per ricordare Jimi Hendrix a 42 anni dalla scomparsa. È bellissimo anche il video:

The wind cries Mary

A presto!

 

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7 risposte a Un racconto, una poesia. Prima di partire

  1. Mirella ha detto:

    Commossa, riesco soltanto a dire : premi meritatissimi.
    Mirella

  2. lucarinaldoni ha detto:

    Quante cose si intrecciano nel tuo bellissimo racconto: l’integrazione, la tolleranza, la vecchiaia, la solitudine, la morte, la “lotta fra l’amore e l’egoismo” come l’avrebbe chiamata Pierangelo Bertoli nei suoi versi semplici quanto profondi, la dimensione insondabile e intangibile dell’amicizia fra donne così diversa dall’amicizia sbracata e cameratesca che tende a crearsi fra uomini,

    Contenuti archetipi, universali, impegnativi, resi come sempre con quella tua incredibile levità: le tue parole hanno come delle piccole ali che le fanno volare sempre più in alto della retorica e del banale.

    Con i tuoi sempre emozionanti personaggi: la vecchia signora che lascia dolcetti davanti alle porte dei vicini, il libraio che si fa quasi “pescatore di intelligenze” girando l’Adriatico a regalare cultura, la coppia gay dichiarata come tale a 3/4 del racconto come per sbattere in faccia ai benpensanti che sono loro dei “diversamente intelligenti” e non diversi due uomini che si amano; il romagnolo e il tunisino che guardano dall’alto un mare non più loro, il paramedico che, lontano da occhi indiscreti, piange sulla sua impotenza: una tenera toccante galleria di piccoli eroi del quotidiano, e chissà quanti altri ne potrei citare.

    Cosa dire? Che sai già benissimo come apprezzo il tuo equilibrato mix di talento e di tecnica, che con questo racconto fa un ulteriore passo in avanti. Insieme alla tua inveterata modestia e umiltà, quella della sapiente artigiana che crea senza spocchia, a volte anche con quel tanto di sofferenza che nel lavoro di uno scrittore non può mai mancare, ma senza farlo pesare neppure a te stessa.

    Afasia.

    Può sembrare strano, ma un apparente innamorato della parola come sicuramente posso risultare, ha in realtà una doppia anima che lo porta spesso ad amare il silenzio, quegli “attimi di silenzio” di cui Battiato rivendica il diritto se non la necessità nella sua bella quanto poco conosciuta canzone “Un’altra vita”.

    Tu sai che io pudicamente coltivo la poesia classica, quella con le rime ABBA (non nel senso del mitico gruppo svedese) e la metrica impeccabile tendente all’endecasillabo perché so quanto il verso sciolto rischi di rivelare della tua anima più di quanto non desidereresti.

    Questa tua poesia è un vero bellissimo “blues” (è in questa categoria che mi viene da inserirlo, anzi se avessi una chitarra sotto mano che adesso non ho lo metterei subito in musica con un profluvio di settime e qualche quinta aumentata tanto per gradire), stilisticamente nella struttura iterativa del verso e contenutisticamente nella sua mesta ma non rassegnata convivenza con la malinconia, che è il pane di ogni blues che si rispetti, anche quando non parla di partner infedeli o mancanza di soldi.

    Ancora complimenti e auguri per un prosieguo di carriera in costante ascesa.

  3. Milvia ha detto:

    Potrei solo rispondere, carissimo Luca: mi mancano le parole, per scrivere una risposta adeguata. Non li merito i tuoi apprezzamenti, potrei scriverti.
    Ma, vincendo una certa ritrosia che mi prende davanti a così belle e sentite testimonianze di stima, non mi limiterò a ringraziarti.
    Mi commuove veramente riscontrare che tu sia riuscito a identificare in questo e in altri racconti cui fai accenno, temi che mi sono cari. Non credo che chi scrive debba “lanciare messaggi”, e non è certo questo, quindi, lo scopo che mi prefiggo quando scrivo. Semplicemente, raccontare di “piccoli eroi del quotidiano” è un moto spontaneo della mia anima, o comunque si chiami l’officina che contiene gli strumenti che mi danno la possibilità di esprimermi.
    Mi fa anche estremo piacere che tu abbia sottolineato che il mio narrare non cada nella retorica e nella banalità, modalità di scrittura di cui ho orrore, e in cui ho sempre paura di precipitare (anche se le tue parole mi sembrano… troppo belle).
    E concludo dicendo che sarebbe splendido che tu avessi fra le mani una chitarra…
    Grazie, amico caro. I tuoi incoraggiamenti e apprezzamenti sono, per me, un motore potentissimo per proseguire sul percorso gioioso (e a volte sofferto) della scrittura.
    Un abbraccio.

  4. margueritex ha detto:

    Milvia, che dire, non potevi che essere premiata!
    Il racconto è strggente e l’andamento della narrazione perfetto.
    Brava!!!!

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