Lettera a Laura

Scattata poche ore fa in Via Indipendenza (Bologna)

Scattata poche ore fa in Via Indipendenza (Bologna)

Quando alla fine dello scorso anno Marilù Oliva mi ha invitato a partecipare a un’antologia di racconti che doveva trattare il tema del femminicidio,  la mia prima reazione è stata di gratificazione, perché la brava scrittrice bolognese mi aveva chiamata a far parte del suo meritevole progetto, insieme ad autori ben più conosciuti di quanto lo sia io.  Ma poi è subentrata la paura. Un tema difficile, impegnativo, quello della violenza sulle donne, e  scivolare nella retorica, nella banalità,  e magari anche nel voyeurismo, rischiando  così di mancare di rispetto alle centinaia di vittime che ogni anno vengono uccise dalla brutalità dei maschi, era un reale pericolo. Poi ho riflettuto, e  ho deciso che dovevo scriverlo, quel racconto, perché anche attraverso la letteratura si può tentare di costruire un futuro diverso da quello che stiamo vivendo, si può trasmettere coraggio a una donna, la si può far sentire meno sola.  E non importa se nella costruzione il mio è un mattoncino piccolo piccolo, come quelli del Lego con cui giocava mio figlio bambino.
E ho pensato che avrei evidenziato, nella storia che mi preparavo a scrivere, un aspetto che, leggendo i fatti di cronaca che raccontano di donne uccise, mi tornava sempre alla mente: il senso di colpa che penso provi chi ha vissuto vicino alla vittima, di chi ha avuto con lei rapporti di parentela, di amicizia, e anche solo di mera conoscenza. Di chi, pur amandola, non ha saputo vedere, ha sottovalutato le richieste di aiuto più o meno esplicite, ha detto: Abbi pazienza, tieni duro, non puoi andartene,  pensa ai figli, cerca di essere più mite, più dolce, più consenziente, lui ti ama, è solo un po’ nervoso. Oppure non ha detto niente, e niente ha fatto. Atteggiamenti dettati dall’amore, quasi sempre, ma che fanno di queste persone ulteriori vittime, perché è difficile vivere con i sensi di colpa.
E poi volevo che al centro del racconto, seppur attraverso le parole di un’altra donna, ci fosse proprio lei, la vittima, e non, come succede molto spesso nei mass media, il colpevole o presunto tale. È di lui, in genere, che si sa tutto: dei suoi sms inviati e ricevuti, delle abitudini, della sua infanzia, di tutta la sua vita, insomma. È come se, in un certo senso, diventasse lui il protagonista, e la donna una sorta di comparsa, a cui capita di venire messa  più in evidenza se ha un bell’aspetto,  (perché mica è vero, purtroppo, che le morti sono tutte uguali), ma che rimane sempre in ombra rispetto al suo assassino.
Ed è tenendo presente queste premesse che è nato il mio racconto.
Se volete potete leggerlo qui: è la prima volta che viene pubblicato in rete, così, per molti di voi è del tutto inedito.
Ma prima consiglio a tutti di acquistare una copia di Nessuna più, (Elliot 2003) al di là del fatto che il mio racconto vi possa piacere o no (l’antologia ne contiene altri 37 scritti da bravissimi autori)  non solo per il valore letterario dell’antologia, ma, e vorrei dire soprattutto, perché il ricavato di tutte le vendite andrà interamente all’associazione Telefono rosa. E di fondi, queste associazioni,  in questi miserabili tempi di tagli, ne hanno sempre più necessità.  Anche con questo piccolo gesto, un giorno, potremo dire: Nessuna più!  Il libro lo si trova facilmente in tutte le librerie ma nel caso la vostra libreria ne fosse sprovvista, ordinatelo al libraio e arriverà in pochi giorni.

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Alla fine del racconto troverete alcuni link che vi porteranno a cose molto interessanti.  Cose da leggere  o ascoltare oggi, che è la Giornata Mondiale contro la violenza sulle Donne, ma da ricordare sempre.

E ora… Buona lettura!

Lettera a Laura

Da molto tempo, ogni notte prima di addormentarmi, e ogni mattina  al risveglio, è sempre  la stessa immagine a riempirmi gli occhi: le tue gambe che sbattono in maniera convulsa contro il lenzuolo. Una gamba, poi l’altra, una gamba, poi l’altra. Parossisticamente. Fino a quando il movimento rallenta, come se tu ti fossi stancata, di quel balletto. Ancora un sussulto e, come in un fermo immagine, le tue gambe finalmente restano immobili. Mi chiedo come mai io riesca a vedere solo le tue gambe, e non il corpo intero, non le braccia che annaspano nel vuoto, non il cuscino che copre il tuo viso, non le mani che lo tengono premuto, per soffocare il tuo  respiro, per cancellare le tue parole.
Hanno detto che è così che sei morta. Soffocata da un cuscino. Lì, in casa tua.
Ogni giorno, da più di un anno, leggo il messaggino che mi hai mandato una mattina di luglio.
“Ti prego chiamami” hai scritto.
E io non ti ho chiamata, Laura.
È che quel mattino mi ero svegliata allegra, così, senza motivo, e volevo mantenere il più a lungo possibile quel mio raro stato d’animo. Non avevo voglia di sentirti piangere. Mi sono detta che ti avrei chiamata più tardi. Ma quando ti ho cercata, alla sera, il tuo cellulare era spento, e così il giorno dopo, e l’altro ancora. Allora ho telefonato a lui, anche se mi è costato, lo sai quanto io lo disprezzi, e lui mi ha detto che te ne eri andata, che non sapeva dove, che neppure al lavoro ti eri presentata, e che anche loro, quelli della banca, non sapevano niente. Preoccupato? No, non mi è sembrato preoccupato. Aveva la solita voce priva di emozioni, che mi ha fatto sempre sentire a disagio. Come se lui fosse un automa, un robot privo di anima. Avrei voluto dirgli: Certo che se ne è andata, non riusciva più a vivere con le tue bugie, lei ti amava, come poteva sopportare che tu avessi un’amante? Gli ho detto soltanto: «Mi chiamerai, non appena sai qualcosa?»
Ha chiuso la telefonata, non mi ha neppure risposto.

Dell’altra, lo avevi scoperto per caso, attraverso alcune foto che lui non aveva cancellato dalla memoria della macchina digitale.
Mi hai chiamata subito, mi hai detto: «Vedessi, Sonia, ce n’è una dove stanno abbracciati stretti, ma stretti, sai? Chissà chi l’ha scattata?»  E questa frase me la ripetevi sempre, in ogni telefonata, durante quelle tante telefonate del dopo cena, quando erano più le lacrime, che le parole.

Non mi è mai piaciuto, tuo marito. Sono la tua più vecchia amica, l’ho capito subito che quello non ti avrebbe resa felice. Ma quando ho tentato di dirtelo, ti sei rinchiusa in te stessa, mi hai detto: «Ma se non lo conosci nemmeno, dopo due volte che lo vedi, cosa vuoi capire, tu».
Sono stata sollevata quando non mi hai chiesto di fare da testimone al vostro matrimonio, anche se ho capito che l’amicizia che ci legava da quando eravamo ragazzine si era incrinata.
In seguito, siamo state anni senza sentirci: un messaggino a Natale, uno per i compleanni, e basta. E siamo state anni senza vederci, dopo il mio trasferimento a Roma. Sai, cosa mi mancava più di tutto? Il tuo sorriso, quel sorriso che sembrava dire: La vita è bella. Ti voglio bene, mondo. Che sembrava dire: O.K., è tutto a posto.

Ho tirato fuori le nostre foto, in questi giorni. Le ho stese tutte sul tavolo, le ho messe in ordine cronologico. A cominciare da quella delle superiori, fatta nell’anno in cui ci siamo conosciute. Il sorriso più bello, il tuo. Hai una camicetta verde, in quella foto. Mi dicesti che te l’aveva fatta tua madre, e che eri orgogliosa di portarla. Poi c’è quella di Carnevale, sempre di quell’anno. Eravamo con quei due… ti ricordi? Com’è che si chiamavano? Il tuo, Alessio, mi sembra, e il mio… Mah, non me lo ricordo. E le vacanze al mare, l’anno della maturità, la prima vacanza senza le famiglie. Rimini ci sembrava un paradiso.
C’è una foto dove tu ed Enrico state mangiando un gelato, e tu hai le mani tutte impiastricciate dalle gocce di cioccolato che scivolano lungo il cono. Ed Enrico ti guarda come se tu fossi il suo regalo prezioso. Enrico. Avresti dovuto vivere con lui, la tua vita, Laura. Ma eravamo troppo giovani per fermarci. E quando fra voi è finita non lo hai rimpianto a lungo, ricordo.
A Rimini abbiamo continuato ad andarci per anni, era abbastanza vicino a casa e non molto costosa. Sono le foto più numerose, quelle scattate nelle lontane estati in cui pensavamo che la vita fosse ancora tutta da vivere, e chissà che cose belle ci avrebbe riservato.

Poi, il tuo lavoro in banca. Poi, l’incontro con lui. Dopo pochi giorni mi hai detto sorridendo: «Amo il mondo. È tutto a posto, ora». Mi hai abbracciata e hai detto: «Non vedo l’ora di fartelo conoscere».

Che non fosse più tutto a posto l’ho capito quando, tre anni fa, mi hai chiamata. La tua voce non sorrideva, al telefono. Sarà l’imbarazzo, ho pensato in un primo momento, sono troppi anni che non ci sentiamo. Ma a mano a mano che mi parlavi, sentivo che non era disagio, il tuo, ma, piuttosto, tristezza. Mi hai chiesto se potevi venire a trovarmi a Roma.
Abbiamo parlato tanto, in quei tuoi giorni romani. Che non eri felice te lo leggevo negli occhi, nel tuo corpo smagrito, e nell’assenza di sorriso. Mi hai detto della tua sofferenza per la mancanza di figli. Per tanti anni avevi sperato di rimanere incinta e adesso, alla tua età, non potevi neppure più sperare. Mi sento un guscio vuoto, mi hai detto. Di lui non hai voluto quasi parlare. Se io ti chiedevo, cambiavi discorso e il tuo sguardo sfuggiva i miei occhi. Solo quando stavi per salire sul treno mi hai detto: «Non va molto bene, a casa, ma allontanarmi mi è servito. Ho capito quello che voglio. Voglio che il mio matrimonio ritorni a funzionare, e farò il possibile, Sonia, perché tutto si rimetta a posto».

Quando lui mi ha detto che te ne eri andata, non mi sono preoccupata eccessivamente.  Ho pensato che ti fossi allontanata per riflettere, per decidere cosa fare. Mi dispiaceva solo che tu non  mi cercassi.
C’eravamo sentite la sera prima  della tua scomparsa e mi avevi raccontato del litigio, il più terribile, mi avevi detto, di tutti quelli ormai quotidiani, da quando avevi scoperto l’esistenza della sua amante. Mi avevi raccontato che tu, il giorno prima, avevi telefonato alla donna, le avevi detto chi eri. Lei era rimasta in silenzio, poi, balbettando aveva detto che no, non era possibile, l’uomo che lei amava non viveva più da tempo con la moglie, che era libero. Avevi continuato a parlarle, cercando di mantenere la calma, e lei, alla fine, si era messa a piangere e aveva interrotto la telefonata. Quando lui era rincasato, mi raccontasti, sulla faccia aveva un’espressione terribile. Aveva cominciato a urlare: «Sparisci dalla mia vita», gridava «ti odio!» Si era sfilato la fede dal dito e te l’aveva lanciata addosso e aveva slacciato il Rolex che gli avevi regalato per il suo compleanno e lo aveva pestato sotto i piedi. Ti si era avvicinato, avevi detto, con le mani chiuse a pugno. Avevi avuto una paura folle. Poi lui si era girato, ed era uscito di casa, sbattendo forte la porta.

Ho cominciato a preoccuparmi davvero quando ho visto quella trasmissione che riguarda  le persone scomparse. Ti hanno dedicato un lungo servizio, sai? C’era anche lui, gli han fatto delle interviste, delle domande. Vederlo mi dava la nausea. Ripensavo a quello che mi avevi raccontato, alla sua violenza, al suo tradimento.
Per diversi giorni ho provato a chiamarlo, ma non mi ha mai risposto. Provavo a chiamare anche te, ogni giorno. La mia preoccupazione si era trasformata in angoscia. Me lo sentivo, che non ti avrei più rivista.
Poi, dopo tre mesi, è arrivata la notizia: era stato ritrovato il corpo in decomposizione di una donna. Pochi resti, ormai. Lo sapevo che eri tu, ancora prima che rendessero pubblico l’esame del DNA.

Ieri, a quasi un anno e mezzo dalla tua scomparsa, è stato celebrato il tuo funerale. Sono venuta su apposta, dovevo, volevo esserci. Sono rimasta in disparte, me lo hai sempre detto che non sono molto coraggiosa, io, e non ho trovato il coraggio di avvicinarmi a tua madre, a tuo fratello. Pensavo a quel messaggino: “Ti prego chiamami” e ho capito che non avrei potuto guardarli negli occhi.
C’erano anche dei parenti di lui, e la tua mamma  e tuo cognato si sono abbracciati davanti alla chiesa. Un lungo abbraccio, le spalle scosse dal pianto. Che donna meravigliosa, la tua mamma.  C’era anche Anna, la tua amica di Venezia. Ci siamo sentite spesso, in questi lunghi mesi, lei e io. Abbiamo confrontato i nostri dubbi, le cose che sapevamo del tuo matrimonio, le confidenze dei tuoi ultimi  mesi di vita. Abbiamo costruito una sorta di puzzle e, per noi, il quadro che ne è venuto fuori è molto chiaro. Ma sarà la giustizia, a decidere. E spero che facciano presto, e che agiscano bene.

Quello che resta di te non lo hanno racchiuso in una bara. Com’è che l’hanno chiamato, il contenitore dove hanno messo le tue ossa? Ah, sì, lo hanno chiamato scrigno. E forse, ora che ci penso, non potevano trovare una collocazione migliore, per te, amica mia. Eri un gioiello di amica, di donna. Ed è negli scrigni che si ripongono i gioielli.

È grottesco che io ti scriva una lettera il giorno dopo aver assistito al tuo funerale. Non ce ne siamo mai scritte, mi sembra. Ma ho sentito forte l’impulso di farlo. Forse per fare pace anche con me stessa, per cancellare il rimorso di non averti chiamato, quella mattina di luglio. Oggi è una grigia domenica di novembre, fra poche ore sarà buio, e poi verrà l’ora di andare a dormire.
Vorrei che l’ultima immagine che precederà il mio sonno, e la prima immagine che si aprirà  sul nuovo giorno, fosse il tuo sorriso, che mi dice: O.K., va tutto bene, Sonia, amica mia.

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Nessuna più (intervista di RL tv  a Marilù Oliva, ideatrice del progetto, curatrice dell’antologia, in cui è anche presente con un suo racconto, e a Laura Costantini, scrittrice e giornalista Rai, che ha partecipato al progetto insieme alla scrittrice e socia Loredana Falcone con il racconto Fuoco amico)

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4 risposte a Lettera a Laura

  1. Anonimo ha detto:

    Brava Milvia, lo porto su fb, ciao
    Giovanna

  2. Bastet ha detto:

    Ciao Milvia,ho appena letto la tua lettera a Laura,l’ho trovata molto bella come tutte le cose scritte da te che finora ho letto.La lettera ha risvegliato in me dei ricordi che per quanto lontani nel tempo e per quanto io voglia allontanare da me,sono arrivati prepotenti,dolorosi.Il ricordo di due donne che sono state parte della mia vita,una la vita me l’ha data,l’altra ha condiviso con profonda amicizia buona parte della mia vita.Tutte due vittime dell’idea dell’amore,o almeno di quello che loro si illudevano fosse un amore,l’uomo premuroso,cavaliere impavido galante colui che ti fa credere che ti amerà per sempre e ti ricopre di tutte quelle piccole galanterie che di primo acchito farebbero perdere la testa anche alla donna più difficile da conquistare…Poi,perché c’è un poi il principe trasforma il nido in una gabbia sempre più angusta,e le premure divengono prigioni,lo stare soli soletti diviene isolamento,il godere della propria casa vira verso la coercizione.Poi,ti rendi conto che il tuo amato bene ti allontana dalla famiglia,dagli amici dal mondo;c’è lui solo lui e tu nei sei diventata inconsapevolmente prigioniera.
    Nel momento in cui acquisisci la consapevolezza inizia la tortura,lenta,quotidiana costruita da piccole umiliazioni,frasi taglienti come rasoi che ti dissanguano lentamente;il sospetto del tradimento si insinua lento, come una serpe che si avviluppa attorno al collo e ti toglie l’aria,ma non da ucciderti, vuole solo farti capire,metterti in affanno.I pregi che avevi ora sono cosa dovuta,le tue caratteristiche simpatiche si sono trasformate in difetti…è una lenta costante inesorabile discesa verso gli inferi,e ti rendi conto che non hai più nulla;il principe era un rospo veramente schifoso,orrido viscido,sei caduta vittima di un sortilegio,lui si era mostrato un principe e tu vittima ingenua hai creduto all’illusione del malefico incantesimo.Per tutto il tempo che avete condiviso lui ha succhiato la tua linfa vitale,ti ha derubato degli affetti anche quelli più cari,ti ha sottratto tutte le tue risorse,materiali ed umane.Poi…viene il giorno in cui tutto il veleno instillato in te negli anni sortisce il suo effetto letale,tutta l’infelicità data dal veleno del rospo schifoso ha iniziato ad ucciderti e una cellula dopo l’altra il tuo corpo ha reagito iniziando a morire di cancro…
    Non è una favola questa e non ha nemmeno un lieto fine,le due donne sono morte di cancro,abbandonate dai rospi-principi,tanto non c’era più nulla da depredare…
    Il mio lieto fine c’è solo a metà,uno solo per ora dei rospi è morto.L’altro credo non stia tanto bene,ma credo di avere ancora tempo penso e spero che a lui non ne sia rimasto molto.
    Quale è la morale di questa favola crudele ?
    Non è una vera morale,ma una amara constatazione,che non uccidono solo le armi,che non procurano dolore solo le percosse,che i lividi e le cicatrici dentro la nostra psiche,possono uccidere,ci vuole solo più tempo…

    • Milvia ha detto:

      Carissima Bastet, è difficile rispondere a questo tuo così sincero e doloroso commento. Voglio ringraziarti per la tua testimonianza: non è semplice raccontare episodi che hanno lasciato ferite profonde, anche se lo si fa davanti a uno schermo. Che dire? che trovo intollerabile che esistano uomini tanto egocentrici e crudeli, da arrivare a distruggere in maniera subdola la vita delle compagne che dicono di amare. Confermi storie che purtroppo non sono, ahimé, letteratura, ma avvengono nella vita reale, e confermi anche una mia convinzione: che anche le violenze psicologiche, le sofferenze dell’anima, fanno ammalare il corpo, come se si vivesse in una pestilenziale terra dei fuochi.
      Grazie davvero, Bastet!
      Un fortissimo abbraccio.

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