Resistere! Resistenza sempre, oggi come non mai.

Da “Dove finisce Roma” bellissimo romanzo di esordio di Paola Soriga, edito da Einaudi. La protagonista è Ida, una ragazzina  che dalla Sardegna si è trasferita a Roma, dove diventa staffetta partigiana.
«Le cose si erano ritorte all’improvviso verso le dieci di mattina del 30 maggio 1944, una mattina di luce e cose piccole che erano sembrate, a Ida, segnali buoni.
[…] Alle sette e mezza era davanti al confessionale, ad aspettare il suo turno. Poi don Pietro le aveva detto, con la voce rauca, quando già non li sentiva nessuno, buongiorno, Ida Maria, buongiorno, don Pietro, aveva detto Ida con la voce allegra e contenta del cielo azzurro che aveva avuto sopra, nella piazza della chiesa. di un inizio estate che già un poco si sentiva, e c’erano una forza e un coraggio che le salivano dalla pancia, come se l’aria chiara portasse via lo sconforto e il disinganno. Era contenta di sentirsi chiamare Ida Maria, da don Pietro, perché Maria era il suo nome nella lotta, il nome più comune per passare inosservata, per confondersi, per far chiedere sempre chi Maria? E se qualcuno, qualcuno dei suoi, la chiamava Ida Maria, era perché c’era qualcosa da fare, e da quel momento era Maria, una staffetta, la staffetta Maria, e fare qualcosa era quello che volevaquello che sembrava non ci fosse altri da fare.
Sarebbe dovuta andare in tipografia, lavorare, poi alle dieci il signor Ercole, il proprietario, l’avrebbe chiamata e le avrebbe dato una borsa di panni sporchi da portare alla lavanderia in via della Palombella  […] e alcuni anche sapevano che in mezzo ai panni sporchi c’erano i fogli e che Ida era Maria, e che Marozzi, il figlio di Marozzi della lavanderia, era il comandante di una delle brigate partigiane che collegavano i quartieri del centro con le periferie, bello e coraggioso, ma che bello e bello, c’ha una faccia che pare un sorcio.
Sul tram le era sembrato, già dalla fermata, che un uomo la guardasse, di nascosto, e le si era accelerato il battito del cuore, una spia, aveva pensato, qualcuno che mi segue, qualcosa non va bene. L’uomo poi era sceso sulla Casilina, verso le prime case, e si era un po’ tranquillizzata. Il cielo raccoglieva l’umido del fiume e del mare non lontano che portava il ponentino, e a via Emanuele Filiberto la porta della macelleria di Gino nella cui cantina erano nascosti Ivano, il padre della sua amica Rita, e gli altri, era aperta come sempre, davanti camminava un cane. Gino, il macellaio, nella lotta lo chiamavano Talpa, per il tunnel che aveva progettato e che stava scavando di notte, con altri due o massimo tre, per collegare la cantina a una buca in via Tasso. Lavoravano, in silenzio e di nascosto, da mesi, per liberare tutti quelli rinchiusi in via Tasso, gli mancava poco, e nessuno lo sapeva, e Ida non se lo chiedeva, che cosa esattamente stessero facendo.
Quello di via Tasso era stato un palazzo come gli altri prima dell’arrivo dei tedeschi, di una famiglia nobile del centro, e dopo, murate le finestra non vedere la luce, il suono incessante di un pianoforte a non far sentire le grida, era diventato una specie di prigione, un luogo di tortura. Da mesi ci lavoravano, e Gino soprattutto ci credeva, che li potevano davvero liberare.»

Da “Il rivoluzionario”  (Frassinelli), il più recente romanzo di Valerio Varesi, che io giudico assolutamente imperdibile. Si svolge per la massima parte a Bologna e abbraccia un arco di tempo dal 21 aprile 1945 (giorno in cui Bologna fu liberata) al 1980. Un romanzo storico che ci aiuta anche a capire il periodo che stiamo vivendo.
«Le note di Bandiera rossa tuonarono improvvisamente dagli altoparlanti del palco di piazza Maggiore, rimbalzarono sotto i voltoni del Podestà, fecero sponda su palazzo de’ Bianchi e irruppero malignamente dentro San Petronio. Fu come una sferzata sulla folla che s’ammutolì rispettosa. Molti alzarono il pugno per salutare l’inno, mentre un sagrestano zelante della vicina cattedrale di San Pietro chiudeva il portone della basilica gettando un’occhiata piena di sdegno verso la piazza. Con studioso tempismo, Giuseppe Dozza salì sul palco proprio mentre le ultime note perentorie squillavano verso il cielo limpido sfiorando blasfeme la statua di papa Gregorio sulla facciata di palazzo d’Accursio. I centodieci chili del primo sindaco comunista di Bologna occuparono la scena subito dopo quando la sua voce fu l’unico suono udibile e gli ampi gesti sacerdotali il solo spettacolo.
Un papa rosso, un altro predicatore, pensò diffidente l’uficiale americano della Militare Police appoggiato a una colonna del Pavaglione. Ma le mani di Dozza non erano quelle diafane e minute dell’arcivescovo Naselli Rocca. Piuttosto assomigliavano a badili e fendevano l’aria come se spalassero ghiaia. La folla sotto il palco sembrava una gassosa sempre pronta a esplodere in un applauso fragoroso obbedendo a quelle mani quasi fossero quelle di un direttore di orchestra.
In quel tripudio che festeggiava la Liberazione, il partigiano Santoni pensava ad altro, al pari dei due soldati americani che masticavano  chewing-gum seduti sulla jeep, annoiati in un discorso in lingua sconosciuta. Rifletteva con sgomento che si può avere nostalgia di tutto, pure delle cose orrende. Della guerra, per esempio, anche se lui se ne vergognava e non ne parlava con nessuno, perché, in quel clima euforico equivaleva a bestemmiare in chiesa. Dal 21 aprile non si era fatto altro che baldoria e persino i funerali sembravano matrimoni. Ma lui non riusciva a sentirsi partecipe di quella primavera di speranza in cui i bolognesi uscivano per strada, i locali riaprivano, si ballava fra le macerie in un panorama di squarci, con la fisarmonica o l’organetto di un suonatore ambulante, mentre le ragazze imparavano il boogie-woogie  dai soldati americani. In quel ribollire gaio, nessuno aveva voglia di pensare al dopo perché la vita era nel presente, improvvisamente dolce e senza minacce. E tuttavia Santoni non ci si trovava. Aveva cercato a lungo in quei giorni il bandolo da cui ricominciare, ma non l’aveva mai afferrato. Erano bastati due anni in montagna a cancellargli l’infanzia e l’adolescenza spazzando via il suo mondo: suo padre scomparso in una fossa comune nel lager di Treblinka, il fratello torturato e appeso dai fascisti a un gancio del muro di palazzo d’Accursio, sua madre, morta senza che potesse aiutarla e la sorella finita serva nemmeno sapeva dove. Non gli era rimasta neppure la casa, centrata da una bomba destinata alla ferrovia.
Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricucire i monconi del prima e del dopo. E allora non gli restavano che quei giorni su a Monte San Pietro, nella brigata “Bolero”, quando per tutti era Jack, quello che sapeva sparare come un cecchino e non sprecava mai un colpo.»

Da “Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana” a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli (ed. L’Unità)
Lettera di Paola Garelli (nome di battaglia Mirka) di anni 28, pettinatrice. Nata a Mondovì, (Cuneo) il 14 maggio 1916. Dall’ottobre ’43 svolge attività clandestina, a Savonanella Brigata SAP Colombo, Divisione Gramsci. Arrestata nella notte fra il 14 e il 15 ottobre 1944, dai militi della Brigate Nere, viene fucilata senza processo il 1’novembre.
«Mimma cara,
la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia e ubbidisci sempre gli zii che t’allevano, amali come fossi io.Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che dò loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo.Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi.
La tua infelice mamma»

Oltre il ponte (M.C.R.)

Buon 25 aprile a tutti i Resistenti!

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8 risposte a Resistere! Resistenza sempre, oggi come non mai.

  1. ReAnto ha detto:

    buon 25 aprile a te mia cara . ciao

  2. lucarinaldoni ha detto:

    Se fossi Bergonzoni mi interrogherei su tutto ciò che collega la Resistenza con la erre maiuscola alla resistenza con la erre minuscola (lo zio Tino di Ancona aveva simpaticamente ribattezzato il Presidente Saragat “Peppe l’Elettricista” visto che parlava sempre di contatti e di resistenza): in entrambi i casi, resistere serve ad accumulare un patrimonio di energia che può, oserei dire “deve” essere spesa per distribuire calore e benessere a chi ci sta intorno.

    E per alimentare una sana (eco)logica decrescita.

    Un abbraccio.

    • Milvia ha detto:

      “Peppe l’elettricista” è un’invenzione fantastica! Eh, i geni sono i geni… (e anche i Geni)
      Un abbraccio a te.

      • lucarinaldoni ha detto:

        Io, come probabilmente sai, ho sempre considerato Ancona l’ultima propaggine della Romagna: subito sotto il Monte Conero comincia l’Abruzzo e le Marche sono una precaria astrazione etnico-territoriale caratterizzata da alcune decine di dialetti diversi, una miriade di città-stato arroccate sulle loro colline che guardano con una certa severità le altre città stato visibili a perdita d’occhio nelle giornate limpide di fine primavera.

        Il gusto delle battute paradossali e geniali (come quella dell’anarchico chiaravallese che percorreva la cittadina camminando all’indietro perché “me tira el culo e vojo vede ‘ndo me porta” e, sempre lui, arrestato e sottoposto a una forte reazione coattiva di olio di ricino frugava con un bastoncino fra le sue feci chiosando “L’ideale però me pare che non me l’ete fato cacà”, un abbraccio al babbo Tonino tramandatore di entrambi questi aneddoti e di tantissimi altri) insieme a quello dei motori e delle scommesse assurde, unisce idealmente Ancona con Rimini.

        Rispetto all’anarchico chiaravallese lo zio Tino era meno prodigo di battute e invenzioni semantico-lessicali ma quando ci si metteva lasciava anche lui il segno.

        Come commento è decisamente off topic, ma c’è chi dice che il successo di un blog si misura appunto dal numero di OT.

        Un caloroso ciao.

  3. Anonimo ha detto:

    E’ giusto e sacrosanto continuare a tenere alto il valore storico della Resistenza anche per tutti i contemporanei. Quel capitolo tragico, unico ed irripetibile della nostra storia (che ha anche ispirato tante sublimi pagine letterarie, come quelle qui proposte), che qualcuno tenta ogni tanto di sminuire e screditare in assoluta mala fede, deve rimanere un punto di riferimento obbligato anche per le generazioni future. In pur comprensibili inviti alla riconciliazione non devono far dimenticare i crimini e le aberrazioni del fascismo, male assoluto e non emendabile. Grazie ancora a Te, Milvia, per la tua delicata sensibilità civile e morale. Giorgio ’62

    • Milvia ha detto:

      Caro Giorgio, hai proprio ragione: il fascismo è “un male assoluto e non emendabile”. Ogni revisionismo, ogni “ma”, ogni tentativo di sminuire la sua efferatezza, paragonandola alla ferocia nazista è da respingere con forza. Grazie per il tuo bel commento, Giorgio.

  4. Milvia ha detto:

    Bellissimo contributo o.t (ma mica tanto), Luca! Un super caloroso ciao!

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